Io mi sono conosciuto nel sogno – Intervista a Filippo Ticozzi | Filmmaker Festival 2025
Il Filmmaker Festival 2025 ha ospitato, tra novanta titoli, anche l’ultimo cortometraggio di Filippo Ticozzi, Io mi sono conosciuto nel sogno, presentato nella sezione Moderns. Si tratta di una discesa nell’abisso di Guido Morselli, un inoltramento nella sua visionarietà attraverso i filmati amatoriali e inediti che lo scrittore ha girato in 8mm tra il 1952 e il 1960. «La ragazza dall’occhio nero», vale a dire la rivoltella con cui si è tolto la vita nel 1973, è stato l’estremo oggetto esiziale di una vita privata misteriosa, in cui l’unica guida nello sperdimento della voragine interiore sembra essere stata la letteratura. La scelta di un soggetto così invischiato con l’apocalittico e con un’angoscia che intacca anima e corpo, come un morbo letale e permanente, tradisce la sensibilità letteraria, umana e cinematografica di un autore come Filippo Ticozzi, che ha il merito di aver portato alla luce (del resto, cos’è il cinema se non luce, anche in termini tecnici relativi alla specificità del dispositivo?) uno scrittore votato, per inclinazione personale e per amore dell’ombra, a essere un solitario misconosciuto dal grande pubblico. Abbiamo deciso di intervistare Ticozzi, regista, poeta e docente universitario, per farci raccontare il percorso che lo ha portato alla realizzazione di Io mi sono conosciuto nel sogno.
È il tuo primo film d’archivio e, da quello che hai dichiarato, potrebbe essere l’ultimo. Che cosa significa girare un film con materiale preesistente? La scelta di parlare di Morselli ha determinato necessariamente questa modalità?
Sono arrivato ai filmati di Morselli per caso, frequentando il Centro Manoscritti di Pavia. Qui ho scoperto molti materiali di questo autore del Novecento al quale mi sono avvicinato nei miei anni da studente universitario e che ho trovato così affine al mio gusto. Si trattava per lo più di videocassette ancora da digitalizzare, il cui contenuto mi ha subito colpito. È iniziato dunque il necessario iter che consiste nello stabilire contatti e ottenere permessi, dal Centro Manoscritti a Adelphi, fino ai parenti di Morselli e a Linda Terziroli, la sua appassionata biografa, autrice di Un pacchetto di Gauloises, titolo che cita il finale di Dissipatio H.G. Ha preso il via, così, un lavoro che è proseguito, pur in modo non continuativo, per ben due anni. Avevo l’impressione di non riuscire a trovare una chiave. L’ho individuata poi nel suono. Il tappeto sonoro del film ha vita propria, dalla musica classica sentita come dall’esterno di una finestra al canticchiare e al crepitio del fuoco acceso. Tutto questo contribuisce a dare un assetto di verticalità nel montaggio.
A proposito di suono, una voce femminile si alterna alla voce maschile. Due timbri diversi si avvicendano così nella lettura degli scritti di Morselli. Si tratta della volontà di rendere condivisa e universale un’angoscia personale, una confessione diaristica, un dolore intimo e viscerale?
La voce femminile è quella di Gaia Barili, quella maschile è la mia, secondo una modalità spesso impiegata nel cinema documentario. L’intenzione è quella di creare una distanza: ho voluto evitare in ogni modo di identificare una persona o tratteggiare un personaggio. La figura femminile infatti non è riconoscibile, ne sono inquadrate solo le labbra. Ho cercato un effetto di straniamento, non brechtiano, ma che appunto si propone di lavorare sulla verticalità.

Il tuo legame di affinità elettiva con Guido Morselli è evidente. Il tuo cortometraggio del 2020 si intitola, non a caso, Dissipatio. Anche tu sei scrittore e regista, benché Morselli, a differenza tua, non si sia mai confrontato con la poesia, se non nei termini di un’aderenza al pessimismo cosmico leopardiano. Filmare e scrivere prevedono due processi creativi molto diversi, cosa ti gratifica e cosa ti affatica dell’uno e dell’altro?
Sono stanco di filmare. Sono passati anni e quando, come nel mio caso, si è fatalmente legati al cinema del sottobosco, si ha a che vedere con un linguaggio audiovisivo che fatica a intercettare il pubblico. I luoghi che se ne interessano, poi, sono rimasti pochi: in Italia sostanzialmente qualche festival. Altrove la situazione è differente e anche per il cinema che si propone di sperimentare c’è spazio, ma farlo in Italia significa concedersi un difficile hobby di lusso. La scrittura invece è un’attività alla quale mi dedico da poco. Quello della scrittura è un momento solitario, che ti libera dalla questione a volte problematica di avere gente attorno e ti permette di riflettere. Sugli incubi e sul nulla.
A un certo punto del film si racconta di un sogno in cui si avverte la pesantezza delle membra. Il corpo ricorre nei tuoi lavori e sembra di centrale interesse, da Inseguire il vento (2014) sulla tanatoprassi a Still-Lifes (2020) sulla pratica del bondage.
Non si può dire che il corpo mi interessi, il mio a volte mi dà addirittura fastidio. Nel contemporaneo, però, è molto legato a una riflessione sull’esistenza, molto più della trascendenza. Sto scrivendo un saggio sugli zombie, quelli sì che mi sono sempre interessati. Sia Tertulliano, in De Resurrectione Carnis, che Paolo di Tarso, nella Prima lettera ai Corinzi, parlano di resurrezione del corpo e non solamente dell’anima. Ho a cuore non tanto il corpo in sé, perché nel cinema diventa inevitabilmente luce, ma l’idea di svelarne la finitezza. In Still-Lifes ho guardato alla pratica del bondage tenendo presente che «l’uomo tende alla roccia e non agli dèi». In questo sta il piacere di farsi legare, nel diventare cosa. E in questo si concentra il mio studio. Uso la parola studio perché vedo il cinema come ricerca. Le storie vengono fuori di conseguenza, ma un film ha soprattutto a che fare con il reale, che è la cosa più inconoscibile del mondo: ti avvicini e ti mette a confronto con quello che è, cioè la morte. Il cinema è uno strumento rivelatorio in questo senso. Jacques Lacan, in Seminario XXIII, scrive «La pulsione di morte è il reale in quanto non può essere pensato se non come impossibile. Vale a dire che ogni volta che fa capolino è impensabile».

Alla fine del corto c’è un riferimento all’ossessione di filmare non già per riguardare, bensì per guardare per la prima volta, sempre schermati. Si vede meno o si vede meglio?
Credo che questo abbia molto a che fare con il contemporaneo. Le immagini finali non fanno parte del materiale d’archivio. Le ho realizzate a Sestri Levante con una camera termica. Di sicuro si tratta di un modo per fuggire dalla realtà di cui dicevamo prima, per non guardare. Come «Hegel del turismo». Tutto il materiale di Morselli è sempre il tentativo di un grande scrittore, che, con una macchina strana a cui non è abituato, riprende e sente qualcosa di insolito e perfetto.
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