
Tre colori: Film rosso – La compassione umana che va oltre il dolore
Oltre Parigi, oltre la Polonia, oltre la Francia. Krzysztof Kieslowski con Tre colori: Film rosso – la pellicola che chiude la sua trilogia dei colori e si pone come punto conclusivo della sua carriera – va oltre gli spazi che avevano popolato i due precedenti film gemelli e ci porta sul proscenio del mondo, dove l’umanità si ritrova più fragile, indifesa e quindi smarrita. In quel preciso luogo dove il tempo assume i connotati dell’eternità e in cui le figure umane e le loro emozioni diventano universali.
Per farlo – in un’opera artistica che tocca vette altissime nella fusione di tutti gli elementi tecnici che vanno a formare un materiale audiovisivo – paradossalmente recede agli spazi strettissimi di una casa di provincia semi-abbandonata e di un anonimo appartamento di città, popolati prima dall’incomunicabilità di un silenzio carico di dolore e poi da parole tanto piene di compassione da creare un cortocircuito logico ed emotivo.
Parlando di Film bianco avevamo proprio discusso come il leitmotiv ricorrente della trilogia ideata da Kieslowski fosse il tema del dolore e i modi in cui l’essere umano decide di affrontarlo. Se in Film blu si tratta di un dolore totalizzante e ineluttabile e in Film Bianco di un dolore accecante che si trasforma in vendetta spietata, nell’ultimo e conclusivo Film Rosso il dolore ritorna a una più raccolta dimensione intima per poi sprigionare la sua forza e deflagrare, squarciando i limiti spazio-temporali.

Valentine (Irène Jacob) è una modella dai modi gentili e delicati. Una sera le capita di investire un cane che, grazie all’indirizzo sul guinzaglio, riesce a riportare al proprietario, un giudice (Jean-Louis Trintignant), che solo più tardi scopriremo chiamarsi Joseph. Tuttavia, il giudice non desidera il suo cane indietro e si pone subito in modo ambiguo: è triste, bizzarro, con un segreto addosso. Valentine, poi, scopre che attraverso le frequenze radio il giudice spia la vita di altre persone. Dapprima si indigna, vorrebbe denunciarlo, ma poi non ne ha la forza e si ritrova ad essere sempre più curiosa sulle ragioni e le motivazioni di un uomo tanto anomalo e misterioso.
Tutto il film, di fatto, è lo svelamento del personaggio di Trintignant attraverso gli occhi ingenui e curiosi di Valentine, che è allo stesso tempo il motore e lo spettatore di tutta la vicenda. L’evoluzione del giudice, all’interno della pellicola, è di quelle che sconvolgono il paradigma iniziale con cui viene presentato al pubblico: da squallido e bizzarro a interessante e comprensibile fino a diventare protettivo, premuroso e affabile.
Dalle prime battute potrebbe sembrare che lui sia lo spettatore esterno che osserva e spia un dolore generale e umano, quasi fosse una sorta di demiurgo sulla terra. Poi, però, – e questo è uno dei grandi meriti dei film di Kieslowski: lasciare tante piste aperte, aprire tanti dubbi nella mente dello spettatore su quelle che sono le reali intenzioni dei personaggi e lasciare che lo spettatore spesso si interroghi a mano a mano che il film procede – ci si accorge che pure le trame secondarie (quella di un giovane giudice che viene tradito dalla donna che ama e il rapporto strano e morboso di Valentine con il fidanzato Michel che sentiamo solo all’altro capo del telefono e mai vediamo) devono fare parte del grande quadro generale, se vengono mostrate con tanta insistenza.

Allora la posta in gioco cambia: tutto sembra convergere intorno al giudice, alla sua vita e al suo dolore. Un varco spazio-temporale si sta aprendo, lo spettatore lo capisce: capisce che il dolore lancinante e profondo del giovane giudice è lo stesso del vecchio Trintignant. Sono solamente trascorsi tanti anni. E si tratta della forma di dolore più pura e intensa che ci sia: quella dell’amore giovanile tradito e calpestato.
Tutti i pezzi iniziano così a combaciare, ma manca ancora qualcosa. Qual è il ruolo di Valentine in tutto questo? È, come noi, semplicemente uno spettatore del dolore privato e universale di Joseph, è una sorta di mediatrice o è qualcosa di più? Mentre ce lo domandiamo pare che il suo personaggio debba uscire di scena: andarsene dalla Francia e sparire nella nebbiosa Inghilterra.
Poi arriva la sequenza finale: inaspettata, spiazzante, rivelatrice. Lo squarcio spazio-temporale si dilata, diventa un vero e proprio buco nero che fagocita le storie del film che abbiamo appena visto con le altre della trilogia in un grande evento, realmente accaduto, di dolore collettivo: una catastrofe foriera di morte che diventa l’origine dei Tre colori e della quale Kieslowski decide di raccontare la storia dei salvati, attingendo a un termine che, nella sfera semantica istituita da Primo Levi, assume un significato ancora più profondo.

Film rosso, però, oltre che un film sul dolore è anche un film sul Destino, nel senso più lato che questa parola possa avere. Una finestra sulla molteplicità delle coincidenze e delle casualità che possono intrecciare le vite delle persone, andando a riprendere un tema che era già stato esplorato dal precedente La doppia vita di Veronica (sempre interpretato da Irène Jacob).
Con questo lavoro, rispetto agli altri due già altissimi episodi della trilogia, Kieslowski riesce a dare, rispetto alla freddezza della protagonista di Film blu e al grigiore dei personaggi di Film bianco, un calore tutto diverso alle vite che racconta: un’umanità diffusa e contagiosa che, attraverso il sentimento della compassione (in senso etimologico: soffrire insieme), mostra continuamente lati inediti di due individui che, da estranei e diversi, finiscono per cadere dentro un soffuso amore platonico.
Questo calore onnipresente al racconto – anche grazie al pervasivo colore rosso che domina la pellicola – compie il miracolo di tenere insieme tutto quanto abbiamo descritto e di essere allo stesso tempo microstruttura perfetta in sé stessa e tassello imprescindibile per significare tutta la macrostruttura della trilogia. Una trilogia e un film che mostrano la potenza del Dolore e della Compassione umana, mentre Kieslowski ci mostra la straordinarietà dell’arte cinematografica.
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