
How to have sex – Come inquadrare e problematizzare un abuso | Cannes 76
Tre ragazzine britanniche trascorrono una settimana della loro estate a Malia, una cittadina vacanziera sull’isola di Creta. Tutte e tre sono sovreccitate, ballano, schiamazzano, bevono alcol e ingurgitano patatine scadenti, vomitano e stramazzano sui letti o sui pavimenti in preda alla sbornia. E daccapo. Una di loro, Tara (Mia McKenna-Bruce), la più timida del gruppo (prendendo la timidezza con le pinze, essendo tutte enormemente sfacciate, almeno l’una con l’altra), pianifica di perdere finalmente la verginità. Potremmo trovarci in una puntata della serie britannica Skins calata in un’atmosfera acid alla Spring Breakers, con qualche incursione nella melanconia estiva di Aftersun – per citare qualche influenza più o meno diretta. E il fatto che queste anime siano qui sintetizzate, che funzionino e tra loro interagiscano, è già un segno di quanto How to have sex, il film di Molly Manning Walker vincitore nella sezione Un Certain Regard nell’ultima edizione di Cannes, abbia dalla sua un fascino e una freschezza notevoli, specie considerando che si tratta di un esordio (con Mubi che ne ha già acquisito interamente i diritti ed è pronta a distribuirlo sul mercato globale).

Le immagini della Walker restituiscono pienamente quella voracità a cui già dalle prime battute intendono lasciare il campo. Per questo veniamo trascinati in pista, invitati (obbligati) a ballare, evitando sguardi queruli, destinati piuttosto soltanto a fare ripetutamente esperienza della sintomatologia di una sbornia. Cosa sta dopo? La medesima disposizione di luoghi, esplosioni e tracolli. È fondamentale, come appunto accade in How to have sex, che la costruzione di una simile partitura prepari il terreno a una rivelazione, a un luogo in cui la realtà si palesa e mostra il fianco a un dramma. Così l’iniziazione al sesso, il rituale della scoperta che Tara insegue con infinito e sfacciato desiderio, e lo spettatore con lei, conduce alle immagini indiscrete di un abuso.
Dopo essersi avvicinata al ragazzo del balcone accanto, Badger (Shaun Thomas), buzzurro malamente tatuato sul collo dal cuore tenero, Tara riversa pian piano sempre più aspettative nella possibilità che possa essere lui la sua prima volta. Ne ricambia timidamente gli sguardi, ridacchia alle sue battute con gli occhi bassi, si fa piccola piccola nel suo abbraccio. Caldeggia un sogno estivo che la possa avvicinare con grazia alla maturità emotiva. Quando però a condurla in spiaggia, da incerta e brilla, è l’amico di Badger, Paddy (Samuel Bottomley), ben più fisico e diretto, Tara si lascia andare a una pratica di cui non conosce il linguaggio, i segni, e che dunque non può leggere. Si lascia guidare dalla maggiore esperienza del ragazzo e sottilmente si fa avvincere, schiacciare sotto il suo peso, e scaricare a giochi fatti, istantaneamente.

Se fino a quel punto How to have sex era stato muscolare nel proporre le immagini di un intrattenimento estivo tra testosterone, giovani corpi nudi e madidi che si strusciano e saltano al ritmo della tech house e del reggaeton, il turning point dell’abuso ne smaschera i limiti, la vera natura rispetto al dramma. Tara si muove come uno spettro nel fracasso di party a cui non sa più prendere parte, parteciparne alle pratiche. Si innalza su un tavolo per ballare ed essere vista, salvo poi sentirsi nauseata dalla vista che si apre per la prima volta a forme di mascolinità tossica, e accorgersi di essere invisibile, isolata. È questo il punto nodale delle immagini a cui tende l’autrice britannica.
Perfino chi dovrebbe essere in grado di guardare, quindi comprendere, sembra avulso da qualsiasi capacità di discernimento e messa in discussione critica. In una prospettiva di immagini che producono e vengono sostituite da altre immagini – di scorrimenti verticali (quelle dei social), cioè di immagini bulimiche, di messaggistica istantanea e subito azzerata, di concerti di godimento e svuotamento centrifugo – vengono meno le coordinate in vista di un isolamento ombelicale. Nessuna delle amiche di Tara, Em (Enva Lewis) e Skye (Lara Peake), è in grado di guardare, di accorgersi della sciagura che ha investito la compagna.
Dove la vista è obliterata, la soluzione sta nella comunicazione: trovare le parole e la capacità di esprimere il dolore. In questo senso, il film di Manning Walker riprende i motivi di certo cinema cinese coevo, legati all’incomunicabilità emotiva, alla difficoltà di dar voce alla cavità prodotta dentro al cuore (visto proprio in un altro film nella sezione Un Certain Regard, The breaking ice di Anthony Chen). La distanza, il conflitto con sé stessi prima che con gli altri, non si supera con un balzo: per Manning Walker non c’è poesia visiva che tenga, nè con cui si possa costruire un finale risolutivo, energico. Piuttosto va cercato un avvicinamento leggero quanto un tocco, come quello di Tara ed Em che finiscono per tenersi per mano, una parola che restituisca tangibilità all’abuso, e che quindi prepari il terreno per parlarne, venirne a capo, trovare un conforto, e dunque rimettersi in viaggio verso casa tenendo vivo un lucore sottile di speranza. Un po’ come l’immagine tattile dell’incontro tra le mani delle due protagoniste in Never Rarely Sometimes Always di Eliza Hittman, l’una stretta all’altra in un momento di estremo bisogno. Un paragone che (almeno per il sottoscritto) vale e dice moltissimo di questo grande esordio.
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