
Versi cupi dalla fine del mondo – Il teatro impossibile di Mimmo Borrelli
Come si può scrivere del teatro impossibile di Mimmo Borrelli senza cadere in errore? Poco la lingua italiana riesce ad afferrare di questi versi cupi che vengono dalla fine del mondo. Mimmo Borrelli è un autore che solo all’apparenza può sembrare proiettato nel passato, nel recupero della lingua flegrea, nelle contaminazioni da Dante e da Basile, nella perlustrazione archetipica dei tragici greci o in quella antropologica tra i vecchi dei villaggi: invece, con Borrelli si ha come la percezione di doversi misurare con un teatro (e una letteratura) del futuro. Per chi come me, dopo più di quindici anni, pur vantando origini vesuviane, continua a trovare intraducibile la parola ‘nzularchia, nel senso che ogni traduzione possibile è incapace di restituirne la virulenza, è impresa proibitiva affrontare una produzione di decine di migliaia di versi (solo La Cupa, pubblicato nel maggio 2023 da La nave di Teseo, nella sua versione integrale ne contiene quindicimila).
Potrei parlare dei personaggi, delle storie di Borrelli, che in fondo attingono da un campionario popolare (i protagonisti de La Cupa vengono da episodi di cronaca nera e trasfigurano in scenari da fiaba orrifica), ma ben presto dovrei accorgermi che in quelle situazioni non c’è riconoscimento possibile, non c’è immedesimazione, nulla che mi faccia tornare a casa con la consolazione di un racconto edificante.

Si potrebbe allora spostare l’attenzione sulla lingua e sottolineare l’operazione coltissima di un autore che cattura l’irresistibile vitalità di una lingua vulcanica dentro gli schemi tradizionali della metrica italiana, ma un’analisi del genere resterebbe debitrice di una malia, una filigrana spumosa, che si nasconde tra i versi eppure li tiene insieme restituendone un suono di altro mondo (“vierme nire, abbremmecute, / senza ll’ uocchie, senza ‘i rrecchie, / allisciateve stu muorto, / ammurbatelo ‘i cufecchie”: vermi neri, verminosi, / senza gli occhi né le orecchie, / cullate questo morto, scherzosi, / ammorbatelo di corna e maldicenze); un esoterismo che per sua stessa natura deve rimanere mistero.
Rivolgiamo allora lo sguardo alla scena, al modo in cui gli attori di Borrelli, e lui stesso, si manifestano davanti al pubblico. Nel campionario di gesti, versi e sentimenti, è possibile intravedere un espressionismo da Commedia dell’Arte, ancora più evidente se si mette a confronto la danza pelvico-stregonesca di Scippasalute ne La Cupa, ultima regia di Borrelli, con la tangibile pesantezza di Spennacore in ‘Nzularchia, primo testo di Borrelli ma diretto da Carlo Cerciello, che pure restituiva del copione l’evocazione visionaria, confinando però gli attori entro un registro ancora naturalistico. Insomma, quella che doveva essere un’operazione di avvicinamento – ciò che proviamo a fare anche noi qui su Birdmen Magazine – finiva per ridurre la portata di un teatro vasto e devastato in cui i corpi vanno tesi dentro e fuori in una estenuante esplorazione della soglia. E la tentazione è di dire che solo Borrelli possa misurarsi con il teatro di Borrelli.
Eppure c’è qualcos’altro, si sente, quasi si tocca. Nel monologo Napucalisse c’è un distico che recita “Napule nun me ne fuje / Napule je schiatto ccà” (“Napoli io non scappo / Napoli io muoio qua”): più ancora della distanza dall’eduardiano “fuitivenne” (“scappate”, rivolto da De Filippo a una platea di giovani attori napoletani dubbiosi sul proprio futuro), a colpire è la strenua volontà di esserci, di imporre una presenza, anche se proiettata in un futuro apocalittico. E qui sta la forza vera del teatro di Borrelli, capace di evocare una fine più o meno lontana come se l’avesse già vista e volesse comunicarcela nell’unico linguaggio possibile, quello della profezia, dell’oracolo, ma col coraggio di un uomo coi piedi ben piantati sulla battigia mentre su di lui sta per abbattersi l’ultima onda.

Non è possibile raccontarlo con le parole, il teatro di Mimmo Borrelli, per cui l’ultimo tentativo che resta è farlo col teatro stesso. Qualche anno fa a Milano ho assistito a uno spettacolo dell’Odin Teatret, La vita cronica: era ambientato nel 2031, si raccontava di un figlio che andava in cerca del padre perduto, in uno scenario di confine, postbellico, in cui confluivano combattenti e rifugiati, madonne nere e chitarristi rock, ciascuno col suo idioma, in un fluire inarrestabile di suoni e immagini lungo una striscia di palco che faticava a contenerli. Ecco, qualcosa di quello spettacolo l’ ho ritrovato in Borrelli, qualcosa di inafferrabile per il razionalismo borghese, qualcosa per cui non riuscivo a commuovermi perché lì non potevo vedermi, qualcosa di ineffabile, eppure presente.
Non lo pensi, il teatro di Borrelli, così come quello di Barba, non lo capisci né lo senti nella comune accezione del sentire. Però lo sogni, in un incubo in cui tua madre ti avvelena, o le lenzuola del tuo letto si bagnano di acqua di mare, o il mondo intero ti rotola addosso, e capisci che è impossibile. Impossibile che certe cose siano accadute davvero, impossibile che il magma possa parlarti e che la vita stia per finire. Impossibile. Eppure accade, dappertutto, perché “ ’a terra primma o poi ‘nt’ a na vota, / contr’all’ommo sempe s’arrevota”, perché la terra prima o poi in un solo istante sempre contro l’uomo si rivolta. Intraducibile, appunto, perché per “arrevotarsi” la terra dovrebbe anche capovolgersi.

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