
E voi come state? – Intervista al regista Filippo Maria Gori
Intervista a cura di Demetrio Marra e Silvia Mazzei
La mattina del 9 luglio 2021, con una comunicazione via mail, i proprietari della Gkn Driveline di Firenze annunciano senza preavviso la chiusura della produzione. L’azienda licenzia in blocco tutti i 422 operai, dopo aver concesso una giornata di permesso collettivo. Nel giro di pochi minuti, i lavoratori accorrono allo stabilimento di via Fratelli Cervi a Campi Bisenzio, alle porte di Firenze, insieme ai dipendenti delle ditte d’appalto. Gli operai riescono a entrare nella fabbrica e danno avvio a un’assemblea permanente.
Dal 31 marzo al 2 aprile, presso il presidio GKN di Campi Bisenzio, si è svolto il primo Festival italiano di letteratura working class, organizzato da Edizioni Alegre e dal Collettivo di fabbrica, in collaborazione con Arci Firenze e diretto da Alberto Prunetti: tre giorni dedicati alla letteratura operaia, lì dove i lavoratori e le lavoratrici sono in lotta. Lì abbiamo incontrato Filippo Maria Gori, autore – con Lorenzo Enrico Gori – del documentario E tu come stai?, dedicato alla storia del Collettivo di fabbrica – Lavoratori Gkn Firenze e co-prodotto da Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico e Istituto Ernesto de Martino: il film ripercorre la lotta fin dai primi minuti, dalle porte dei cancelli sorvegliati dagli addetti alla sicurezza in quella fatidica mattina d’estate del 9 luglio 2021 fino al grande corteo di piazza del 26 marzo 2022.

Come nasce E tu come stai? e come si è evoluta la struttura del documentario?
E tu come stai è nato quasi contemporaneamente all’inizio della lotta. Due settimane dopo il 9 luglio 2021 mi venne proposto dall’Istituto De Martino – che poi ha prodotto il film – di iniziare a fare ricerca e raccogliere materiali su quello che stava accadendo alla GKN. Lorenzo Gori, che è mio padre oltre a essere l’altro regista, è sempre stato insieme a me. Lui ha un’esperienza trentennale come giornalista, ma sapevamo che non volevamo fare un’inchiesta: abbiamo voluto raccontare questa storia in modo puntuale, ma non freddo e distaccato.
Il film racconta la vertenza, tra momenti pubblici e privati, con con un linguaggio che restituisce un senso di presa diretta: vogliamo che gli spettatori scoprano la storia insieme agli stessi protagonisti. Il periodo di ricerca – in cui di solito quasi non si usa la camera, per prendere confidenza con le persone e il contesto – nel nostro caso ha coinciso già con parte delle riprese: abbiamo seguito che succedeva, raccogliendo spunti per organizzare la struttura del documentario, tra possibili interviste e profili da approfondire. Per noi il punto cruciale era il rispetto verso le persone che si sono fatte raccontare: non volevamo sfruttare il Collettivo a fini di spettacolarizzazione, mostrandoli come martiri, eroi o guerriglieri. Sono persone come tutti noi che hanno reagito a una minaccia comune. Per restituire questo con dignità e verità abbiamo scelto di cercare un’intimità non attraverso le biografie dei singoli, ma nel modo in cui ogni lavoratore e ogni lavoratrice aveva trovato la sua strada per partecipare alla lotta.
L’obiettivo – dalla scrittura al montaggio – era da un lato rendere accessibile questa storia tanto a persone con una certa sensibilità politica quanto a chi è estraneo alla militanza, e dall’altro tentare di far convergere attraverso le immagini tutti i temi che questa lotta porta con sé. Già durante le riprese ci chiedevamo quale potesse essere il momento giusto per concludere il racconto. Non potevamo fare una storia completa della vertenza, ma volevamo che questo lavoro non rimanesse una mera cronaca, un simbolo sterile: volevamo che il collettivo alla fine si riconoscesse in questo film, che diventasse parte della lotta. Il finale in questo senso vuole essere la risposta alla domanda che si pone all’inizio, fin dal titolo: E come stai? Durante la manifestazione del 26 marzo 2022 ci siamo resi conto che la vertenza non sarebbe finita, ma il nostro racconto lì trovava una chiusura ideale e simbolica. Perché se la vertenza non è raccontata nella sua interezza, il racconto del film sì: il coro che all’inizio del film è cantato da un gruppo di operai, alla fine è cantato da una piazza intera. La lotta della GKN ormai è patrimonio comune, e la bandiera è stata piantata: “vada come vada, anche se ci dovessero sotterrare, noi siamo già semi”.

C’è stato un momento storico in cui le arti sono diventate un sistema simbolico. Nel contemporaneo la politica e la cultura sono due strade drammaticamente separate. Un’operazione come la vostra vuole rompere questo status quo, cercando una soluzione di continuità tra il politico e l’arte.
Non si può sempre risolvere la discontinuità tra arte e politica, ma la si può certamente interpretare. Il genere documentario è stata la nostra chiave di lettura per questa discrasia: per noi era fondamentale che col Collettivo ci fosse un riconoscimento reciproco. Non solo come registi e documentaristi, ma anche per l’esperienza umana che abbiamo vissuto alla GKN. Perché un linguaggio possa avere un impatto sulla realtà, infatti, ci deve essere la volontà di raccontare una storia da un lato, e di lasciarsi raccontare dall’altro. La storia della lotta del Collettivo è eccezionale, ma sono eccezionali anche le singole persone che la compongono. Il Collettivo conosceva benissimo i rischi e l’ambiguità di questa operazione, ma fin dall’inizio c’è stata una totale apertura verso le nostre telecamere, anche in momenti assembleari molto delicati, con fiducia e coraggio.
Abbiamo cercato di non imporci dall’alto, ma di raccontare questa storia da dentro, ascoltando e osservando con coscienza e lucidità quello che ci circondava. Ma questo posizionamento comporta un altro rischio, persino più subdolo: quello di immedesimarsi e identificarsi, in un’appropriazione dall’esterno, col vissuto delle persone coinvolte nella vertenza. Bisogna prestare attenzione alla retorica fuorviante del “siamo tutti sulla stessa barca”, ma possiamo sentirci parte della stessa flotta se si opera nella contestualizzazione critica della dignità di ognuno. Nel baricentro che scegli per la tua narrazione si addensa il rispetto per la storia che stai raccontando: il nostro baricentro era ed è il Collettivo, che volevamo raccontasse e rappresentasse sè stesso all’interno del film. Quando si parla di cinema – e cinema documentario in particolare – il punto di vista sta nella singola inquadratura: non esiste neutralità, e si deve scegliere dove e come posizionarsi.
La narrazione del Collettivo di Fabbrica è retorica in senso consapevole e profondo. Lo slogan E tu come stai? diventa uno strumento di modificazione del discorso istituzionale. Qui il linguaggio retorico non è semplice gioco di appropriazione superficiale, ma riesce finalmente a ritrovare una presa nel reale.
Non abbiamo voluto creare alcuna sovrastruttura di linguaggio: potevamo solo amplificare la voce già potentissima del Collettivo seguendone la sensibilità. Difficile che un’opera d’arte possa realmente cambiare la società, ma la cosa più importante di tutto quello che abbiamo fatto qui alla GKN è aver ampliato il raggio di circolazione di questa storia. L’obiettivo era semplicemente le persone, vedendo questo lavoro, conoscessero e si riconoscessero nella portata politica, sociale, storica della lotta del Collettivo. Missione compiuta.

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