
Siccità – Verso l’umanità migliore che non siamo
Dove può finire il mondo che conosciamo e, di conseguenza, quanto può incattivirsi l’uomo se messo alle strette? Siamo tutti dei “poveri cristi” in preda alla rabbia, allo sconforto, al dolore. Il vivere insieme le esperienze più drammatiche non ci fortifica, bensì ci rovina, ci divora fino a renderci delle carcasse ambulanti deprivate di ogni molecola di umanità. Questo cerca di mettere in scena Paolo Virzì in Siccità, presentato a Venezia79 e attualmente in sala. Cerca, ma non ci riesce completamente.
Roma, trecentosessantasettesimo giorno della crisi idrica, uno scenario apocalittico si presenta agli occhi di chi vive nella capitale e di chi la raggiunge per lavoro o per piacere. L’acqua viene razionata, centellinata: cinque litri pro capite giornalieri, due ore di erogazione. I topi infestano le strade, le blatte abitano le case e, come se non bastasse, sono portatrici della tripanosomiasi africana (la malattia del sonno). Ci sono crisi che si sommano ad altre crisi (idrica, lavorativa, finanziaria), c’è un’epidemia e ci sono innumerevoli storie di uomini e donne disperati, che si intrecciano le une con le altre: chi cerca lavoro, chi chiede giustizia, chi manca di amore e autostima, chi invoca il perdono, chi cavalca l’onda del successo mediatico, chi si arricchisce dalla catastrofe, chi abbandona i propri ideali per un’infatuazione passeggera, chi si lamenta del presente e contribuisce a renderlo un tempo peggiore.

Ogni storia incastonata nella narrazione corale di Siccità, scritta da Piccolo, Archibugi e Giordano, vive e sopravvive grazie ad un’intrinseca contraddizione che spinge l’individuo al largo di uno sterile mare di buone intenzioni annegate dall’orgoglio ferito e dal risentimento. Guerre personali e collettive si snodano sempre più vistosamente in un microclima capitolino inospitale e fatale. Virzì somma, condensa e stipa in due ore di film una sintesi ridondante degli ultimi due anni, piovuti dal nulla su una già precaria stabilità sociopolitica. La realtà che abbiamo vissuto sulla nostra pelle e attraverso i piccoli schermi (tv, tablet e smartphone) viene amplificata e ingigantita per l’altro schermo – quello della sala – con l’obiettivo di mostrarci cosa siamo diventati. Saccheggia qua e là, ispirandosi alle vicende- tipo, esempi lampanti di una tragicità condivisa per esasperarli oltre ogni limite. Questo è il vero problema: non c’è un limite. Si scade nella rappresentazione di macchiette che perdono di scena in scena la loro forza, riducendosi a meste caricature che si aggrappano, come possono, al relitto di una commedia all’italiana che oggi non può più essere replicata. Attori di talento (Ragno, Orlando, Montesi) diventano copia carbone di ciò che già sono stati, e si inaridiscono, mentre la scanzonata disperazione di Mastandrea e l’equilibrio stoico di Pandolfi fungono da collanti tra vicende che, seppur intrecciate, rimangono dissonanti nella loro ridondanza un po’ superficiale. Asciugare, sarebbe stato necessario, lasciando che il linguaggio cinematografico – forse il solo che in questo film si dimostra essenzialmente interessante – parlasse sovrastando le voci. Magnolia di Paul Thomas Anderson e La grande bellezza di Sorrentino, film che a modo loro hanno introdotto o trainato il cinema delle due decadi precedenti, innescano un sistema di citazioni e atmosfere prolifiche a cui la vicenda evolve e involve tra climax ascendenti e discendenti.

Discendente, a seguito di un’accanita esasperazione di momenti lucidi scenicamente e allucinati narrativamente, è il conciliante e speranzoso epilogo che sembra voler, a seguito delle preghiere del Santo Padre (reale e sorrentiniano insieme) e dei suoi fedeli, non lontane dalle cerimonie pagane evocate dal richiedente asilo del Mali (ciliegina sulla torta di un accanimento cinico degenerato), riportare la normalità. Dio vede e provvede, punisce l’uomo e poi lo perdona, una morale consolatoria che stride con l’impianto precedente, che, se ben intessuto, avrebbe potuto essere il racconto preciso e meditato di una contemporaneità inquieta e turbolenta. Virzì sembra volerci dire che è stato tutto uno scherzo, una prova generale per ciò che potrebbe venire. Peccato che si sia già ampiamente andati oltre. Ed è così che, nel suo essere un progetto ambizioso e potenzialmente interessante, straripato a distruggere argini usurati, Siccità si trasforma in un anacronistico affresco buonista che lascia cadere le armi impugnate convintamente con collera, per cedere il passo ad una pizza spartita amichevolmente.
Dal 2015 Birdmen Magazine raccoglie le voci di cento giovani da tutta Italia: una rivista indipendente no profit – testata giornalistica registrata – votata al cinema, alle serie e al teatro (e a tutte le declinazioni dell’audiovisivo). Oltre alle edizioni cartacee annuali, cura progetti e collaborazioni con festival e istituzioni. Birdmen Magazine ha una redazione diffusa: le sedi principali sono a Pavia e Bologna
Aiutaci a sostenere il progetto e ottieni i contenuti Birdmen Premium. Associati a Birdmen Magazine – APS, l‘associazione della rivista