
L’anima e la carne – John Huston, il maverick del cinema
Non fu un caso che Orson Welles ricevette l’Oscar alla carriera proprio da John Huston. Artisti dalle forti affinità come è dimostrato dalla loro collaborazione in The other side of the wind, pochi altri cineasti della Hollywood classica sono riusciti a incarnare come loro il mito del maverick, quella figura tutta americana il cui nome si potrebbe tradurre come anticonformista o cane sciolto. John Huston fu infatti un individualista tenace e geniale, un simbolo perfetto dell’anima utopica e avventuriera della cultura statunitense, ma allo stesso tempo uno spirito troppo imprevedibile per essere contenuto all’interno delle rigide strutture istituzionali e industriali del suo paese.
È indagando la figura del maverick, quindi, che diviene possibile svelare la natura profonda del cinema di Huston, che da sempre ha scelto di raccontare personaggi allo stesso tempo nobili e reietti, ammirati e rinnegati, esclusi da quella stessa società di cui hanno fondato la mitologia. Celebrato per aver inventato il genere noir con Il mistero del falco e l’heist movie con Giungla d’asfalto, è oggi opportuno riscoprire il lato avventuroso del suo cinema: quello de Il tesoro della Sierra Madre, de La regina d’Africa, del Moby Dick in cui nacque l’amicizia con Orson Welles, soprattutto de L’anima e la carne (Heavens knows Mr. Allison) del 1957, una delle sue opere più ingiustamente dimenticate.

Durante il periodo del secondo conflitto mondiale, il caporale dei Marine Allison sfugge all’attacco del suo sottomarino da parte dell’aviazione giapponese, e naufraga su un’isola in un angolo remoto dell’oceano Pacifico dopo tre giorni alla deriva su una scialuppa di salvataggio. Ormai certo di essere prossimo alla morte, il militare interpretato da Robert Mitchum incontra l’unico abitante dell’isola: Sorella Angela, una novizia irlandese interpretata da Deborah Kerr, la quale era giunta in missione solo per scoprire che tutta la popolazione locale era già fuggita a causa di una precedente invasione dei giapponesi. Incapaci di segnalare ai loro rispettivi comandi la loro posizione, i due protagonisti sono costretti a collaborare per sopravvivere alla fame, alla solitudine e, infine, all’arrivo del nemico.
Per quanto poco citato insieme ai titoli più celebri di John Huston, L’anima e la carne è costellato dalle tematiche cardine del regista. Innanzitutto, la scelta dell’ambientazione non è casuale. Archetipo di quella letteratura classica che è sempre stata di grande ispirazione per il regista, l’isola abbandonata è un perfetto espediente per permettere ai personaggi di scoprire la loro natura, fragile e spaesata, che viene loro chiaramente rivelata proprio grazie all’annullamento degli stimoli confusionari della civiltà.

Profondamente ispirato dai Dubliners di Joyce, il cinema di Huston è sempre popolato dagli esclusi, dai reietti, da quelle personalità rinnegate dalla civilizzazione e quasi costrette a trovare rifugio in ambienti esotici e inospitali: deserti (Gli spostati), montagne (Il tesoro della Sierra Madre), giungle (La regina d’Africa, L’uomo che volle farsi re), isole sperdute (L’isola di corallo), o addirittura i bassifondi delle metropoli (Giungla d’asfalto, appunto). L’isolamento, l’ostilità dell’ambiente, sono quindi banchi di prova in cui i personaggi devono scoprire sé stessi, superare la loro paralisi esistenziale e accettare le imperfezioni del loro essere al fine di superare le avversità. Per Huston, la razza umana è quindi separata tra chi soccombe alle proprie imperfezioni, al proprio dolore, e chi invece trova la forza di riscattarsi.
L’anima e la carne riduce questa dicotomia alla sua più semplice e chiara essenza. I due protagonisti sono entrambi personaggi definiti dalla mancanza di qualcosa. Il caporale Allison è difatti entrato nei marine per rompere il ciclo di crimini e incarcerazioni che ha definito la sua vita sin dall’infanzia in orfanotrofio. Egli è, non a caso, un maverick con un vuoto emotivo e morale che caratterizza tutto suo passato. Suor Angela, specularmente, è una novizia in attesa di prendere i voti ufficialmente: un’assenza la cui risoluzione si estenderà per sempre nel suo futuro. Da un lato, un uomo in fuga, dall’altro una donna in attesa: il pericolo della vita militare contro la calma della vita monastica, due personaggi agli antipodi accomunati dalla loro condizione di reietti, d’individualità incomplete, e dal desiderio di trovare un ordine nel mondo, in questo caso militare o divino.

Seppur fondato su questa tensione generata da individualità così opposte, il film segue un tono assai leggero e non travalica mai i confini del genere a cui appartiene. In questo uso composto e preciso del mezzo filmico risiede non solo la grandezza, ma anche la fortuna della carriera di John Huston, il quale, a differenza dell’amico Welles, si è spinto raramente nella ricerca di soluzioni barocche, lasciando emergere il sublime dalla profondità psicologica dei suoi personaggi.
In un certo senso, è possibile trovare un paragone con lo stile letterario di Ernest Hemingway, di cui Huston è stato già considerato come l’analogo cinematografico. Asciutto ma evocativo, invisibile nel suo essere assorbito dalla rappresentazione dell’umanità su cui posa lo sguardo, il cinema di Huston è uno dei migliori esponenti di quell’umanesimo che ha definito tutto il cinema statunitense classico, il cui successo si fondava su una colta fiducia nelle capacità umane.
Un esempio lampante è la scena in cui Allison si introduce furtivamente in una cucina dell’esercito giapponese al fine di rubare delle provviste, ed è costretto a nascondersi all’entrata di due soldati nemici. Ripresi dal loro superiore, essi decidono di passare la serata bevendo sake e giocando a Go, costringendo Allison a dormire in una nicchia nel soffitto in compagnia di un roditore. Questi due personaggi apparentemente marginali creano in realtà una piccolo quadretto hustoniano a sé stante.

Ripresi con un’estrema naturalezza nei gesti, i due soldati non hanno niente che li accomuni con la rappresentazione classica di “nemico”: essi solo a loro volta dei poveri reietti, costretti a partecipare a un meccanismo di morte che non riescono a comprendere, e che vedono nel bere e giocare in compagnia l’unica possibilità di trovare la leggerezza perduta. Ancora una volta, ci troviamo di fronte a un’umanità imperfetta, con la quale fraternizzare, sorridere e comprendere.
John Huston è quindi padre non solo del genere noir, ma anche di un cinema che credeva di poter mostrare la verità della vita, o almeno un frammento di essa. Il suo grande merito artistico non risiede, forse, nell’aver rivoluzionato il mezzo filmico, ma piuttosto nell’aver raccontato, per più di 40 anni di carriera, il sublime che si nasconde negli angoli più remoti del mondo, nella distruzione, o nella creazione, dei rapporti umani. Il suo cinema, creando mitologie e immaginari che tutt’ora riecheggiano nel cinema statunitense, è classico per definizione, e John Huston è un autore che merita di essere approfondito, studiato e anche riscoperto nelle sue opere meno celebri.
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