
Eleonora Duse – Il dinamismo della modernità
Dopo aver visto l’interpretazione di Cleopatra da parte di Eleonora Duse la scrittrice Anton Pavlovič Čechov scrisse a sua sorella: “Non conosco l’italiano, ma ella ha recitato così bene che mi sembrava di comprendere ogni parola; che attrice meravigliosa!”.
Portare turnées di successo in tutto il mondo, pur recitando sempre in italiano, è una delle tante caratteristiche che mostrano la grandezza di Eleonora Duse. La marcata fisicità, la semplicità degli abiti di scena, l’assenza di trucco, sono tutti aspetti afferenti a una recitazione che si può dire procedere per sottrazione e che, in rottura con il teatro ottocentesco, le ha sempre garantito un’espressività e una comunicabilità autentiche e forti.

Nata a Vigevano nel 1858 da genitori attori, conosce la recitazione fin dai primi anni di vita.
La sua parabola artistica varia molto nel corso di una carriera che durerà quarant’anni e conoscerà la
collaborazione con importanti intellettuali del suo tempo tra cui Arrigo Boito, Matilde Serao, Gabriele D’Annunzio e Henrik Ibsen. La corrispondenza epistolare con questi e altri intellettuali, insieme a quella con la figlia Enrichetta, è un elemento fondamentale per comprendere l’atteggiamento di Duse
nei confronti del lavoro d’attrice e del processo creativo d’interpretazione dei personaggi.
Proprio grazie a questo repertorio epistolare emerge, nei primi momenti della sua carriera, una paradossale sensazione di estraneità nei confronti del teatro e in particolare del processo creativo. I riferimenti riguardo allo sviluppo della performance infatti parlano di un bisogno di solitudine e di difficoltà nell’ascoltare sé stessa all’interno di un mondo performativo che “costringe a
essere artisti a ora fissa”.
Procedendo nell’analisi dell’epistolario, a metà degli anni 80 si nota un cambio di visione e di sentire. Il teatro è percepito ora come possibile forma di esaltazione del reale e i personaggi come strumenti utili nella personale ricerca interiore.
Non è chiaro il motivo della metamorfosi, ma negli anni in cui Duse interpreta opere come Cavalleria rusticana di Verga o La locandiera di Goldoni è la realtà che sembra sottotono, mentre la messa in scena ne è una trasposizione in chiave più vivida e intensa.

Quest’atteggiamento fiducioso e ottimista ha vita breve: in un periodo che va dal 1909 al 1921 Eleonora Duse si ritira dalla scena mossa da motivi di salute, ma anche dall’incompatibilità con un modo di fare arte che la logora prima di arricchirla.
Questa fase è caratterizzata da particolare fervore nell’impegno sociale: durante la prima guerra mondiale, da convinta interventista, si dedica al sostegno dei sofferenti al fronte e nel 1914 a Roma crea una Casa Biblioteca per le attrici. Questa esperienza, destinata a fallire in breve tempo, mostra però come Eleonora Duse sia stata guidata dall’idea che un attore, più di qualsiasi altro tipo di artista, abbia bisogno di una forte cultura per far fronte al suo lavoro e alla vita difficile che esso comporta. Facendo infatti un mestiere estremamente fisico, guidato dai sensi e dai nervi, senza la
giusta preparazione intellettuale un interprete rischia di non essere più di un involucro vuoto.

Interessata alla settima arte, poco prima di tornare sulla scena e cavalcare gli ultimi anni di carriera, partecipa a una solo film, Cenere, tratto dall’omonimo romanzo di Grazia Deledda.
Tornerà sul palco nel 1920 con un bisogno di libertà e autonomia artistica ancora maggiore rispetto a quando lo aveva lasciato. In quest’ultima fase rimarca con le sue performance come i personaggi non siano per lei archetipi da raccontare, ma umanità specifiche da assorbire e trasmettere una volta fatte proprie.
La dura vita nomade collide con la sua salute cagionevole che ne risente in più occasioni. L’attrice si spegnerà nel 1924, dopo esser stata colpita da tubercolosi durante una tournée negli Stati Uniti.
Fil rouge nella carriera di Eleonora Duse è senz’altro il rapporto turbolento con il teatro, rapporto autentico e intenso che la porta a continui cambi di rotta, anche drastici. Questa è l’importante spia di una modernità che si evince dal susseguirsi di fasi differenti contraddistinte dall‘autoanalisi e dalla spontaneità, in una continua ricerca che è allo stesso tempo espressiva e interiore.
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