
“Sulla Infinitezza”, di Roy Andersson -Guardare il mondo come fosse un acquario
Il cinema di Roy Andersson è legato ad un ricordo affettuoso. Vi entrai in contatto nel 2012, quando alcuni passaggi di You, the Living (2007) servirono da punto di avvio per una lezione universitaria (all’epoca si era tutti in aula e con un po’di sforzo posso ancora ricordare la sensazione delle poltroncine blu di quella sorta di spazio cinematografico). Fu la prima volta che vidi gli straordinari piani-sequenza di Andersson: mi colpirono i colori slavati, la sensazione di oppressione di quegli spazi chiusi e soffocanti, la consistenza esplicitamente artificiale dei fondali, l’insensatezza delle situazioni. Come ci venne fatto notare allora, la ricorrente presenza di acquari nei lunghi tableaux del film non era forse casuale: il senso di chiusura che prova il pesce nella sua boccia non è così diverso da quello che i personaggi di Anderrson sembrano denunciare.

Quest’idea non mi ha più abbandonato e l’ho ritrovata anche nei film di Anderrson che ho successivamente recuperato, da Canzoni dal secondo piano (2000) a Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza (2014). Lo stesso sembra valere anche per il recente Sulla infinitezza (2019), che è valso ad Andersson il premio per la miglior regia a Venezia 2019. Anche qui lo spettatore si trova di fronte alla stessa umanità sconfitta e abbandonata, in una successione di desolanti quadri che sintetizzano in immagini quella che sembra essere una vera e propria antropologia negativa.

Come ricordato dal regista stesso, infatti, il filo rosso che lega tutta la sua ricerca è lo scandaglio dell’esistenza umana, colta nei suoi momenti di banale e quotidiana crudeltà. La scena al mercato è in questo senso esemplare: mentre in primo piano due pescivendoli preparano la propria merce per le signore in attesa, un uomo inizia a schiaffeggiare una donna sopraggiunta da poco. Un gesto violento, improvviso, irrazionale che – in un mondo dove tutto scorre inesorabilmente verso il peggio – non genera neppure uno scandalo. Sembra quasi che il mondo sia destinato per sua natura alla dissoluzione e che l’uomo non possa che giocare la parte di uno spettatore impotente in questo processo di lenta agonia, un po’ come la coppia che (in un omaggio evidente ma rovesciato a Chagall) osserva dall’alto la distruzione di Colonia.

Lo spettatore, accompagnato da una sorta di voce narrante, assiste impotente ai quadri messi in scena da Anderrson, senza alcuna possibilità di intervento. La tragedia del quotidiano e la lugubre ironia di cui a volte si rivela pervaso vengono scrutati con curiosità. Ecco tornare l’idea dell’acquario: è come se fossimo separati dai personaggi del film da una sorta di vetro, che ci permette di osservarli con lo stesso interesse con cui un entomologo si interroga sui movimenti convulsi degli insetti. Non c’è spazio per la morale consolatoria né per le consolazioni offerte dalla religione (e, su quest’ultimo punto, Sulla infinitezza è particolarmente esplicito, attraverso la figura di un sacerdote che ha smarrito la fede).

In fin dei conti, guardare il cinema di Andersson è un po’ come vedere sempre lo stesso film, perché il regista ritorna ossessivamente sul medesimo insieme di problemi, indagati con un’estetica coerente e sempre identica a sé stessa. Non ci si può né ci si deve insomma aspettare uno stravolgimento stilistico perché per Andersson il cinema sembra prima di tutto un mezzo per sezionare l’esistenza umana intesa nella sua dimensione sovraindividuale. E in questo senso egli è senza dubbio uno dei più rigorosi interpreti del presente.
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