
Dentro “Due” – Intervista a Filippo Meneghetti
Di Ludovico Cantisani e Tobia Cimini
Filippo Meneghetti (Monselice, 1980) è un regista italiano che vive e lavora in Francia. Dopo alcuni cortometraggi, tra cui L’intruso e La bête, esordisce al lungometraggio con Due (Deux), storia dell’amore segreto che lega due donne mature vicine d’appartamento. Presentato nel 2019 al Toronto International Film Festival e selezionato anche alla Festa del Cinema di Roma, ha riscosso un grande successo nelle sale francesi fino a diventare il titolo francese proposto all’Academy degli Oscar come Miglior film straniero. Interpretato da Barbara Sukowa e Martine Chevallier, Due ha vinto il César come miglior opera prima ed è stato candidato ai Golden Globe come miglior film straniero.

Qual è stata la tua formazione come regista?
Ho studiato Antropologia alla Sapienza, sono cresciuto in provincia di Padova, e subito dopo il liceo sono andato a New York con un amico. Lì ho fatto lavori di ogni genere, soprattutto in cortometraggi diretti da studenti della Tisch School of the Arts (New York University), conosciuti nel ristorante in cui lavoravo o in altri contesti. Per un periodo ho anche lavorato in teatro. Ho cominciato così, facendo delle piccole esperienze pratiche di set. Da lì ho anche studiato regia, e poi ho lavorato come assistente e aiuto alla regia, fino a quando non ho cominciato a fare le prime regie io stesso. Non sono mai stato particolarmente precoce, non mi interessava neppure, probabilmente. Volevo capire cosa raccontare e come raccontarlo. Il primo corto l’ho fatto a trent’anni.
Cosa ti ha spinto in Francia?
Similmente a una delle protagoniste del film, l’amore. La mia compagna è francese, vivevamo insieme a Roma, io già provavo a fare film all’epoca, ma ci sembrava che la Francia offrisse più opportunità. All’inizio, anche perché non parlavo la lingua, ho dovuto ricostruirmi una rete di conoscenze e ho iniziato a lavorare come assistente in piccoli cortometraggi. I miei produttori francesi li ho conosciuti così, lavorando per loro, poi hanno visto e apprezzato il mio primo cortometraggio e nel 2013 abbiamo iniziato a sviluppare Due.
La gestazione del film è stata lunga: sei anni. In che modo ha influito sul film?
Per me è stata una sorpresa, a film finito, trovare nelle reazioni del pubblico esattamente quelle cose che volevamo ci fossero nel film, ovvero quello che i francesi chiamano Cahier des Charges. La forma attraverso cui queste cose sono arrivate, invece, si è evoluta fortemente. Il film me lo sono visto in testa milioni di volte, nella riscrittura la cosa più difficile è mantenere negli anni l’entusiasmo, la voglia e la passione per il progetto. Un copione tende sempre a diventare una cosa vecchia, io nel frattempo ho girato anche altre cose e ho lavorato per altre persone. Ritrovare o mantenere l’entusiasmo attraverso gli anni è una cosa difficilissima, non sempre ci si riesce. La presenza di Malysone Bovorasmy, mia compagna e cosceneggiatrice, è stata fondamentale da questo punto di vista, così come quella dei miei produttori. Ci si alimenta gli uni con gli altri, non si fanno i film da soli.

La sceneggiatura è cambiata molto in questo tempo?
Due ha cambiato forma tante volte. L’ultima volta è stato un cambio abbastanza importante, a cinque settimane dalle riprese, quando ci siamo resi conto che non c’erano abbastanza soldi. Abbiamo dovuto tagliare un’intera settimana di riprese e assieme ad essa svariate scene. Questo ha portato a un’operazione di distillazione, nostro malgrado. Ancora oggi ripenso alle scene che abbiamo dovuto sacrificare, non so dire se sia stato un bene o un male.
Ho l’impressione che fare un film, in particolare il primo, sia molto una questione di sapersi adattare, ma in generale questo tipo di film si fa sempre con grande difficoltà. L’importante è non perdere mai il nocciolo duro, nonostante i cambiamenti, per quanto dolorosi possano essere. Nel mio caso, so che le cose che abbiamo tagliato mi sarebbe piaciuto girarle, ma vorrà dire che le metterò nei prossimi film. Forse dover rinunciare a qualcosa aiuta a precisare le intenzioni.
Due è impreziosito dall’interpretazione del suo cast. Cosa cercavi nelle tue interpreti e a che punto sono state coinvolte?
Avendo avuto questo tempo “lungo” di scrittura, le due attrici sono state coinvolte a metà del processo di finanziamento, più o meno nello stesso momento. Quello che per me era imprescindibile era avere attrici che rappresentassero in maniera onesta la loro età, il fatto che non fossero ritoccate in particolare era veramente fondamentale, non avrei potuto filmarle altrimenti. Una delle idee del film era proprio raccontare l’invecchiamento, fare delle immagini diverse da quelle che vediamo, che paradossalmente diventano di “rottura” pur non essendolo. Questo era effettivamente difficile e la prima conversazione è stata proprio di accertamento che la mia intenzione di fare primi piani stretti, con pochissimo trucco, far vedere le rughe e le macchie della pelle non fosse un problema. Entrambe hanno accettato, non era scontato.

Barbara Sukowa e Martine Chevallier offrono infatti un’interpretazione straordinaria. Cosa hanno apportato ai loro personaggi?
Sono due attrici dalla carriera straordinaria: Barbara è un’attrice di cinema anche se ha iniziato col teatro, mentre Martine è eminentemente un’attrice teatrale. Quando abbiamo iniziato a frequentare le attrici, io e Malysone abbiamo cominciato a scrivere i personaggi “verso” di loro. Il tempo di attesa ci ha permesso di fare questa operazione, conoscendole come persone abbiamo intravisto delle cose del loro carattere e della loro personalità che ci sembravano potessero nutrire i personaggi, in maniera differente fra l’una e l’altra. Per cui abbiamo portato i personaggi verso le attrici, senza arrivare a cucirli su misura per loro.
Come hai deciso di dirigerle sul set?
Sul set il rapporto con ciascuno degli attori è particolare: si tratta di una relazione umana, intima, e con ogni singola persona cambiano le modalità e le dinamiche. Fra l’altro anche i due personaggi sono estremamente diversi.
Per il ruolo di Martine, Madeleine, la cosa più difficile è stata sottrarre. Per me era interessante che lei fosse un’attrice di teatro, perché portava un’espressività necessaria visto che da un certo momento del film le sue parole si riducono; poi il lavoro di sottrazione si è esteso anche all’espressione, perché il cinema è un’altra cosa. Per Nina, quindi Barbara, bisognava invece lavorare intorno all’energia del suo personaggio, ma è una cosa che Barbara ha, è davvero così, ha portato qualcosa di naturalissimo che ne fa l’attrice che è. Anche Léa Drucker, che interpreta Anne, ha portato molto al suo personaggio: è un’attrice straordinaria, ricca di sfumature.
Hai descritto il tuo Due come “una storia d’amore raccontata in forma di thriller”. Come mai hai scelto questo approccio e quali erano i tuoi principali riferimenti cinematografici in quest’opera di commistione?
Due “flirta” con il genere, ne usa alcuni codici, senza essere propriamente un thriller. C’è una questione direi di gusto e di ricerca personale: mi piace il cinema di genere e mi piacciono i thriller, come si può vedere anche dai corti che ho fatto, e mi sembra interessante sfruttarne la sintassi, le atmosfere, le situazioni perché lo spettatore le conosce e si può creare un gioco con il pubblico attorno a queste dinamiche. A me interessa stimolare lo spettatore, portarlo proattivamente nel film assieme a noi che lo facciamo. Il thriller mi sembrava uno strumento adeguato, in questo caso, perché Due è comunque una storia di segreti, cose non dette, anche di impostura se guardiamo la storia dal punto di vista della famiglia di Madeleine. Il thriller, la suspense, si basa sulle quante informazioni svelo e su quante ne nascondo allo spettatore, che così si costruisce delle attese… Che poi possiamo disattendere, magari di poco, lateralmente. Questo spazio di sorpresa e di imprevedibilità mi sembra interessante per giocare con lo spettatore e con il cinema tout court.

Come in ogni thriller, in Due è molto importante l’aspetto del sonoro. Dal tuo punto di vista in quali maniere, nel linguaggio cinematografico, il suono può assolvere una funzione narrativo-emotiva oltre che descrittiva?
Amo molto lavorare sul suono e stavo molto attento a questa dimensione anche nei primi corti. Il sonoro mi sembra incredibilmente sottoutilizzato al cinema, almeno in termini di possibilità espressive. In quanto regista, la capacità più interessante del suono mi sembra sia quasi subdola: lo spettatore guarda l’immagine e intanto il suono lavora sulle emozioni proprio perché lo spettatore non le sente arrivare, non ci fa caso; permette di essere più “laterali” nella strategia di spinta delle emozioni e mi sembra uno strumento molto pertinente per mettere lo spettatore nella prospettiva emotiva e psicologica delle protagoniste.
Una delle cose più interessanti in questo senso è il modo in cui in Due fai “parlare” gli oggetti. Il suono e gli elementi in scena diventano veicoli delle emozioni, come nel caso della lavatrice o della padella lasciata sul fornello.
Sì, in quei casi specifici è molto evidente. La lavatrice serve a suggerire cosa succede dentro Madeleine mentre osserva Nina, le cipolle che bruciano nella padella fanno pensare a quello che sta succedendo a Madeleine fuori campo, sono una metafora del suo corpo. Sono cose che quasi precedono la scrittura, a volte, sono delle idee che ho e quando la storia si presta diventano scene. Ma in ogni caso sono scritte. Anche le transizioni sonore sono cose su cui mi piace lavorare dalla sceneggiatura, mi sembra interessante costruirne una sintassi. Ricordo che tanti anni fa, in un corto che feci alla scuola di cinema come esercizio, feci una sceneggiatura audio accanto a quella tradizionale. È una cosa che in parte faccio ancora, delle liste di suoni per costruirmi anche una grammatica dei suoni del film. Ovviamente tutto nasce dal fatto che mi piace farlo, che è sempre la risposta più pertinente, ma è anche perché il suono mi sembra uno spazio cinematograficamente inesplorato e per questo la ricerca è interessante.
Nelle tue inquadrature c’è un grande senso del contrasto, della costruzione e del fuori campo. Come ti rapporti sul set col direttore della fotografia e quali sono le tue principali reference visive?
Forse dico una banalità sconcertante, ma il fuori campo è lo specifico del cinema, mi sembra più interessante ciò che non si filma piuttosto che ciò che si filma. Il mio lavoro è stimolare l’immaginazione dello spettatore, non costringerla oppure otturarla con le mie suggestioni, ma lasciare allo spettatore abbastanza posto per fare sua la storia. È una cosa che riguarda anche lo stile narrativo, l’uso delle ellissi: più riesco a dare allo spettatore elementi per essere dentro alla storia e alle emozioni che voglio che senta, meglio è. In questo modo lo spettatore avrà immagini e sensazioni più forti e adeguate perché saranno le sue. La letteratura agisce così, mette in testa al lettore delle immagini che gli sono proprie, personali: il cinema può fare una cosa simile in una forma diversa, magari anche più forte. Non mostrare qualcosa allo spettatore mi sembra possa avere un effetto più potente di quello che si potrebbe ottenere mostrando, anche il cinema che amo spesso lavora così.

Nel film lo spazio assume una rilevanza narrativa interessante, dato che le due protagoniste vivono l’una accanto all’altra. In che modo lo hai pensato in sceneggiatura e come ti ci sei misurato sul set?
Due è nato con l’idea del dispositivo architettonico: i due appartamenti e il pianerottolo nella mia testa erano un dispositivo metaforico semplice, quotidiano ma pertinente. L’idea era di lavorare prevalentemente in spazi anodini, semplici, e di farne delle metafore, cosa che cerco sempre di creare. Quello che mi interessa è sempre raccontare quello che sta succedendo all’interno del personaggio attraverso quello che filmo. In questo senso, la porta sempre aperta prima e poi sempre chiusa, così come il pianerottolo che diventa una frontiera, erano metafore semplici. Anche i due appartamenti erano lo specchio dell’anima delle due protagoniste, della loro storia, della loro situazione, del perché sono lì. Quello di Madeleine è carico di oggetti, che pesano come la sua storia famigliare, dei trent’anni che ha vissuto. Quello di Nina è un “finto” appartamento, vuoto, spoglio e quando la filmo nel suo appartamento c’è il suo sentirsi messa a nudo anche nelle sue scelte e nella loro irrazionalità – anche se la parola non mi piace. Quei luoghi mi permettevano questo.
Negli ultimi tempi sono sempre di più i film girati in una location unica. In che modo un’impostazione di questo tipo può avere una sua specificità filmica, emancipandosi anche dal teatro?
Io credo che i luoghi siano fondamentali nel cinema: mi vengono in mente moltissimi film in cui la location determina se non tutto davvero molto della messa in scena e della recitazione. La relazione tra contesto e personaggio nel cinema mi sembra più forte che a teatro, proprio perché a teatro c’è la convenzione mentre al cinema questa cosa è meno forte, possiamo veramente portare lo spettatore a fare esperienza dei luoghi, dei singoli dettagli: è paradossale, ma al cinema la materia esiste. Del resto, noi abbiamo filmato in Scope proprio perché gli appartamenti erano il quarto personaggio del film e avevamo bisogno che ci fosse posto per includerli nel fotogramma.
Anche l’esperienza di clausura collettiva imposta dal Covid può giocare un ruolo importante per il pubblico verso questo tipo di film.
È vero. Certo, avendo cominciato a scrivere Due a fine 2013 l’ultima cosa che avrei immaginato era una pandemia. Però durante l’anno “pandemico” molte persone mi hanno contattato per dirmi che in questo momento il mio film dice altre cose. Mi sembra una dimostrazione ulteriore che quando un’opera è finita non appartiene più a chi l’ha fatta ma il suo senso continua a evolversi.
Curiosamente, parlando con la scenografa dicevo che l’appartamento di Madeleine doveva essere così caloroso e pieno di cose da non voler viverci, doveva diventare una prigione. Poi abbiamo fatto tutti esperienza di questo nei nostri appartamenti!
Essendo il mio primo lungometraggio per me è interessante vedere come le cose cambiano di segno e di lettura rispetto a quello che gli succede attorno.
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