
Zidane, l’invisibile e il digitale | A 21st Century Portrait
Il 23 aprile 2005, allo stadio Santiago Bernabéu, il Real Madrid dei “Galacticos” vinceva in rimonta contro il Villarreal, risultato finale un combattuto 2-1. Partita come tante altre, avvincente ma non particolarmente memorabile, e di cui oggi certamente non parleremmo se non fosse per il documentario che quello stesso giorno gli artisti Douglas Gordon (Glasgow, 1966) e Philippe Parreno (Orano, 1964) decidono di dedicare al celebre campione del Real Madrid Zinedine Zidane, uno dei più forti centrocampisti di tutti i tempi. Zidane: a 21st Century Portrait filma per tutta la durata della partita non il campo da calcio e lo sviluppo della gara, ma sempre e quasi esclusivamente il corpo di Zidane. Un prodotto, dunque, anti-narrativo, che delude le aspettative dello spettatore per interrogarlo invece riguardo le condizioni di visibilità che connotano quel panorama mediale, tipico del XXI secolo, nel quale lo spettatore stesso si trova immerso.
Presentato al Festival di Cannes del 2006, proiettato in diverse sale francesi e in alcune delle più importanti gallerie d’arte del mondo, sempre riproposto nelle mostre antologiche che, negli anni seguenti, sono state dedicate ai due artisti, largamente distribuito in DVD, caricato integralmente su YouTube nonostante i diritti d’autore (ad oggi lo si trova ancora tra i primi risultati di ricerca), manipolato sulla medesima piattaforma dove, secondo la logica degli highlights, dai 90 minuti del documentario alcuni utenti hanno selezionato le scene meno “noiose”, Zidane: a 21st Century Portrait si inscrive a pieno titolo nell’orizzonte del cinema all’epoca del digitale. Potenziale blockbuster per il soggetto scelto, in realtà sofisticata opera di videoarte per le modalità discorsive adottate, disseminato a livello di fruizione perché ibrido a livello statutario, l’esperimento di Gordon e Parreno palesa la consistenza digitale delle sue immagini fin dai titoli di testa quando, al fischio d’inizio, l’immagine del rettangolo di gioco si destruttura nella texture optical dei pixel che la compongono. Una decostruzione percettiva preceduta da una riflessione sul tempo e sulla memoria, con i sottotitoli che ci invitano a considerare che, in futuro, la partita potrà essere dimenticata o ricordata al pari di una passeggiata al parco.
L’ossessione per l’immagine di Zidane fin da subito si coniuga con l’aspirazione ad una visibilità totale. Sul calciatore convergono 17 videocamere di diversa risoluzione, comprese due Panavision HD con zoom modificati, all’epoca in dotazione all’Esercito degli Stati Uniti. Tutto il film si costruisce sull’esposizione delle diverse riprese, talvolta accelerandone o rallentandone leggermente il movimento, evidenziando ripetutamente la messa a fuoco dell’immagine, alternando campi medi e lunghi, primi e primissimi piani, dettagli delle gambe e dei piedi del calciatore, riproponendo il replay delle immagini con il telecronista che, come se ce ne fosse bisogno, ci invita a guardare un fallo da rigore. In questa esibizione delle possibilità scopiche offerte dal cine-occhio digitale, l’esclusività dello sguardo concentrato su Zidane destruttura la logica cinematografica del campo e controcampo, con il risultato che, paradossalmente, il campo da gioco rimane quasi sempre fuoricampo. Guardiamo sempre Zidane che corre e guarda il pallone e l’evolversi del gioco, ma per noi quest’ultimo rimane invisibile, se non per gli eventi fondamentali (il fallo da rigore, i gol e una rissa che coinvolgerà Zidane in prima persona). Perché, allora, per usare le parole di Parreno, «fare un film che segue il protagonista di una storia senza raccontare la storia»?
Gordon e Parreno hanno in parte risposto alla domanda, indicando, in diverse interviste, una delle loro fonti principali negli Screen Tests di Andy Warhol, i quasi 500 brevi filmati in cui l’artista ritrae, tra 1964 e 1966, alcuni dei personaggi del mondo artistico di New York, tra i quali Lou Reed, Bob Dylan, Susan Sontag, Dalì, Duchamp e Allen Ginsberg. Warhol si limita ad azionare la sua 16mm e a riprendere a camera fissa lo sguardo della persona ritratta, il vero soggetto dell’opera. Tutti questi sguardi, con la loro enigmaticità irriducibile, non fanno che spingere all’estremo il proprio limite, tra visibile e invisibile, realtà e rappresentazione. Dennis Hopper, ad esempio, con fare da attore consumato, nega a lungo lo sguardo in macchina fingendosi assorto, per poi concederlo e, (forse) tradendo la maschera, sorridere consapevole del gioco con lo spettatore.
La grazia e l’innocenza con cui Edie Sedgwick, star della Factory, sostiene invece il peso dello sguardo sono straordinarie e non è difficile intuire perché Warhol, l’artista che voleva essere esclusivamente superficie, avesse scelto lei come sua portavoce in un’intervista televisiva del 1965. La grazia, però, non esclude l’enigmaticità dello sguardo e, pur invisibili, sembra di poter sentire il mistero e il dolore di questa Marylin Monroe in versione pop art, che con la celebre attrice condivise il tragico destino di un’infanzia molto sofferta e della morte per overdose in giovane età.
Rispetto agli Screen Tests, il film di Gordon e Parreno si differenzia per il supporto digitale, e quindi per l’intrinseca piattezza di un’immagine che si fa superficie senza profondità, e, più significativamente, per il fatto che Zidane, nel Panopticon digitale dello stadio, non ha bisogno di guardare in camera, e sono anzi le telecamere a cercare il suo sguardo. A tal proposito, sembra indicativo che quello che forse è l’unico controcampo rispetto allo sguardo di Zidane si soffermi sulle luci dello stadio, in chiara analogia con le luci teatrali, a sottolineare l’inscindibilità di realtà e rappresentazione nello spettacolo della partita. In comune agli Screen Tests infatti non può che rimanere la questione dell’identità, quell’enigma costitutivo rispetto al soggetto ritratto. Guardiamo per 90 minuti Zidane cercando di capire qualcosa di quel volto che però finisce sempre per coincidere con quella maschera ossuta, dal naso adunco e lo sguardo torvo, che gronda sudore e sputa.
L’alternanza delle riprese, gli effetti sonori e alcuni sottotitoli in cui Zidane ci confida alcuni suoi pensieri sulla partita movimentano il film, chiedendo a chi osserva riflessioni sulla propria esperienza spettatoriale che lasciamo a chi ha già guardato o vorrà guardare il film. In conclusione sembra però opportuno rilevare la presenza, a metà del film, durante l’intervallo della partita, del flusso di immagini che ci informa sugli eventi che si sono verificati, nel mondo, il 23 aprile 2005, tra i quali un’alluvione in Serbia, il lancio di una nuova serie di videogames, l’esplosione di un’autobomba in Iraq, la morte di Sir John Mills. Per cercare di interpretare questa scelta artistica si può fare riferimento alle dichiarazioni di Gordon e Parreno riguardo l’importanza, per la concezione del ritratto e del film, delle visite al Museo del Prado, e in particolare dei quadri di Goya e Velàzquez. A questo punto sembra impossibile non pensare a uno dei dipinti più celebri del Prado, Las Meninas di Velàzquez, manifesto concettuale delle possibilità di rappresentazione, in cui grazie allo specchio sul fondo della scena possono coesistere e coincidere nell’opera lo spazio esterno dello spettatore e quello interno del quadro.

Nel film il mondo – lo spazio esterno allo stadio, il fuoricampo – fa la sua comparsa durante l’intervallo della partita, secondo una relazione metonimica ambigua poiché il mondo contenuto nell’intervallo della partita non può che essere anche contenitore della partita stessa. Real Madrid-Villarreal allora è solo una delle componenti del flusso mediatico che compone la realtà del 23 aprile 2005 e, non a caso, con una circolarità imperfetta il secondo tempo inizia con la stessa considerazione sul tempo e la memoria con cui era iniziata la partita.
Resta da chiedersi quale sia, nel film, l’elemento analogo allo specchio di Las Meninas. Considerando che l’intervallo della partita è, oggi, lo spazio pubblicitario per eccellenza, si potrebbe pensare, con rilevanti implicazioni, a quel rettangolo di schermi che marca il confine tra Zidane e gli spettatori e sul quale a intervallo regolare si alternano pubblicità di cereali, aziende automobilistiche e di telefonia, lamette da barba. Il consumismo, dunque, come specchio, elemento identitario e rivelatore, e fenomeno sociale che, insieme all’ibridismo tra reale e spettacolarizzazione nel continuum digitale mediatico, alla sorveglianza e all’aspirazione frustrata ad una visibilità totale, si può ritenere più che sufficiente per fare dell’opera di Gordon e Parreno “A 21st Century Portrait”.
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