
A 70 anni da Diario di un curato di campagna di Robert Bresson
Parlare di Diario di un curato di campagna a settant’anni di distanza dalla sua prima proiezione alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia del 1951 – dove vinse il Premio OCIC (Office Catholique International du Cinèma) in un’edizione particolarmente ricca (il miglior film fu Rashomon di Akira Kurosawa) – significa confrontarsi non soltanto con una pietra miliare del cinema mondiale, ma con il dibattito che scatenò e le centinaia di pagine che su questo film si sono scritte: per fare dei nomi, André Bazin, Susan Sontag, Paul Schrader. Significa confrontarsi anche, e soprattutto, con un autore, Robert Bresson, influente e icastico, come dimostrano le Note sul cinematografo, che nella seconda metà del novecento ha ridefinito, pur nella nicchia di ammiratori e seguaci (in un’intervista rilasciata nel 1983 dichiara «sono abbastanza sconosciuto»), i rapporti tra il cinematografo (come amava chiamarlo) e le altre arti, insistendo sulla sua autonomia, sull’indipendenza di un mezzo espressivo considerato al pari, se non in qualche misura più versatile e potente, della drammaturgia e della letteratura («il campo del cinematografo è incommensurabile»). Diario di un curato di campagna deve essere inquadrato nella prospettiva di una frattura non più rimarginabile in primis con Les anges du péché e Les dames du Bois de Boulogne; in un secondo momento, grazie alle riflessioni del regista stesso e alle esegesi che del film apparvero su riviste come Cahiers du cinéma, con un’idea di cinema debitrice delle strutture del teatro e del romanzo, un cinema subordinato alle altre forme artistiche, psicologico ed espressionista: un cinema di rappresentazione, per Bresson da abolire.
La trama è più che mai minima. Un giovane prete viene incaricato al sacerdozio della parrocchia di Ambricourt, ma la sua missione, spirituale e materiale, viene intralciata prima dagli interessi del conte, poi dall’ostilità e dalla meschinità degli abitanti del villaggio francese. Sia il curato di Torcy sia le bambine a cui il prete impartisce le lezioni di catechismo si prendono gioco di lui, lo scherniscono, lo isolano. Il prete, inoltre, soffre di dolori allo stomaco a causa della sua dieta simbolicamente fatta di pane e vino, per cui verrà in seguito accusato di etilismo e trasandatezza. L’unica luce di speranza viene apparentemente dalla giovane Chantal, figlia della contessa, la cui tormentata interiorità attrae e spaventa il giovane prete, che costretto dai dolori a partire, morirà di cancro allo stomaco nella casa di un vecchio amico.

La questione dell’adattamento
Paradossalmente, un film come Diario di un curato di campagna, che dichiara apertamente il cinema-come-linguaggio, è l’adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo del 1936 con protagonista il giovane prete d’Ambricourt di Georges Bernanos (sulla questione dell’adattamento ero già intervenuto qui). Non a caso André Bazin parlò di un «effetto paradossale» nelle modalità di trasposizione adottate da Bresson, qualcosa di simile a un ribaltamento estetico, a un capovolgimento di forme e strutture tra cinema e letteratura. Bresson taglia personaggi e dialoghi, sfronda le descrizioni pittoresche e dettagliate, sacrifica, al contrario di quanto ci si aspetterebbe, le parti più cinematografiche, quelle che più sembravano richiedere una visualizzazione su uno schermo, una trasfigurazione in immagine; mantiene l’essenza stilistica del romanzo: «l’autentico equivalente dell’iperbole di Bernanos era l’ellissi e la litote del découpage di Robert Bresson» (Bazin). Il film diventa letterario, il romanzo, al confronto, pullula di immagini; in altre parole, il romanzo viene affermato nel film, nel suo riscoprirsi parola per parola, frase per frase, dentro l’immagine, accanto ad essa come una sua citazione, non dissolto e smembrato, rimaneggiato e scorciato, nella maniera di un classico adattamento. A questo proposito Bresson in una nota ordina di «mettere in un’immagine quel che un letterato diluirebbe in dieci pagine». L’affermazione del cinema come mezzo di espressione indipendente passa inevitabilmente da questa dialettica col testo letterario, da un rapporto di fedeltà e infedeltà, al punto che quando il linguaggio cinematografico sembra negarsi, riproducendo senza variazioni il testo, in realtà si smarca da qualsiasi altra arte, dialoga con un materiale insieme estraneo e assorbito nella struttura e nella sostanza profonda.

Al discorso di André Bazin si collega Susan Sontag, che definisce Diario di un curato di campagna un’opera riflessiva, o contemplativa (d’altronde André Bazin nel suo celebre saggio Le Journal d’un curé de campagne et la stylistique de Robert Bresson parla di «cinema spirituale»). La caratteristica principale di questo tipo di opera è la sua duplicità, perché nell’arte riflessiva la «forma», la sua autoconsapevolezza, duplica, doppia il «contenuto». In questo modo la forma impone una disciplina alle emozioni dello spettatore postponendo ogni facile gratificazione, in quanto chi guarda è allo stesso tempo distaccato e coinvolto, immerso e consapevolmente allontanato. Non siamo però di fronte ad un distaccamento tipicamente brechtiano: il cinema è anzitutto emozione, intuizione, divinazione, sguardo sul mistero della natura umana. Un esempio (prendo a piene mani da Sontag) di questo distacco, di questo ritardo emozionale, della dialettica tra immagine e testo, è la scena in cui il giovane prete cerca invano il curato di Torcy, bussa alla porta e non risponde nessuno: in quel momento, preso dallo sconforto, si appoggia allo stipite e, dopo il gesto, si sente la voce narrante leggere dal diario la scena appena vista. La prima persona della voce narrante duplica l’azione in modo tale che lo spettatore si soffermi sulla scena, in modo che l’intensità emotiva ne esca raddoppiata. Ovviamente il procedimento è utilizzato spesso nella direzione opposta, in una sorta di prolessi che scinde due realtà: la realtà scritta e quella visuale. Così, Robert Bresson elimina ogni psicologismo ed espressionismo, in favore di un cinematografo che moltiplica le sue fonti, un cinematografo come «nuovo modo di scrivere, dunque di sentire».
Per un cinema puro
Per comprendere a pieno la frattura con i primi due lavori, bisogna prendere in considerazione anche ciò che Bresson richiedeva ai suoi attori; per essere più precisi, ai suoi «modelli». Da Diario di un curato di campagna in poi nessun attore professionista comparirà in un film bressoniano, nonostante solo cinque anni prima avesse diretto in Les dames du Bois de Boulogne la star Maria Casarès. I motivi sono stati ampiamente spiegati dallo stesso Bresson in interviste e interventi nel corso degli anni: l’attore professionista mostra sullo schermo gli strascichi del modo di interpretare la sua professione, falsa l’immagine, e se il cinema deve puntare al reale, sondare l’enigmaticità dell’animo umano, allora deve riprodurre l’automatismo di ogni gesto e di ogni parola («I nove decimi dei nostri movimenti obbediscono all’abitudine e all’automatismo»), e il modello farsi veicolo – non interprete – del testo e della sua emotività. Claude Laydu è stato sicuramente uno dei modelli migliori dell’intera filmografia di Bresson: in Diario di un curato di campagna le battute sono sillabate, automatiche appunto, tanto che la voce off-screen e quella on-screen risultano indistinguibili. Il pensiero viene scartato, ogni forma di volontà soppressa per lasciar spazio alla spontaneità e al caso; l’attore viene gettato in mezzo agli eventi del film, ugualmente il regista.

Ma Bresson non rinuncia a narrare, anzi, per lui il cinema è essenzialmente narrazione, giustapposizione e ricomposizione di frammenti della realtà; il regista, qualcuno che impone ordine. Nelle sue Note, infatti, scrive che «è indispensabile se non vogliamo cadere nella rappresentazione. Vedere esseri e cose nelle loro parti separabili. Isolare queste parti. Renderle indipendenti così da porle in una nuova dipendenza». L’ellissi, in Diario di un curato di campagna, funziona come collante emotivo degli eventi. Non dimentichiamo che il film è una parabola cristologica, la visione di un uomo verso il suo destino misero di morte. La progressione ellittica e anti-causale della narrazione crea interstizi, buchi neri tra un’immagine e l’altra dove s’annida l’enigma e il mistero dell’uomo, se si vuole di Dio. Lo spettatore, come il regista, non lo vede, ma lo intuisce e lo percepisce nascosto: non ci arriva con l’intelligenza, ma col cuore. Esemplare, in questo senso, la famosa “scena del medaglione”, in cui il parroco d’Ambricourt ha uno straordinario dialogo sulla salvezza con la contessa. Di certo, si tratta del centro del film, non solo in termini di racconto. È un «dialogo tra due anime», come disse Bazin, climax e anticipazione della grazia a cui il finale del film si consacrerà. Non si sa perché la contessa si converta all’improvviso, non si sa come e perché del cancro allo stomaco, dell’inevitabile morte; quel che conta sono gli effetti, i sintomi, «che la causa segua l’effetto e non lo accompagni o lo preceda».
In un’intervista pubblicata da Paul Schrader sulla rivista Filmcomment nel 1977 Robert Bresson dice: «è molto difficile vedere le cose. Così molte volte cammini per la strada, guardi le cose, ma non le vedi. Se vedi lo sguardo negli occhi di un uomo e allo stesso tempo vedi la ragione per cui guarda in quel modo, non ne sei commosso»; e prosegue: «voglio che le persone indovinino». La modernità di Bresson sta proprio qui: nell’impurità trovare un cinema puro, spogliato di ogni falsità, di qualsiasi volontà che prevarichi il senso dell’immagine, perché quest’ultima, nei gesti e nei suoni che contiene, nella sua posizione in un sistema ordinato, si avvicini alla Natura, e non al naturale. A ragione Bazin, dunque, comparò l’estetica di Diario di un curato di campagna alla pagina vuota di Mallarmé, al silenzio di Rimbaud: sullo schermo si susseguono i movimenti impercettibili dello spirito, i moti invisibili della salvezza e della grazia, «che si vedono». L’immagine finale non può che essere bianca e vuota, segnata da un crocifisso nero, ultimo residuo significante; in sottofondo una voce legge la lettera che avvisa della morte del prete d’Ambricourt: la morte del «teatro filmato», il trionfo di un nuovo modo di concepire il cinema (cinematografo).
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