
The Rain – Pioggia (scomparsa) e virus nella produzione Netflix
Quando si approccia The Rain per la prima volta, ciò che si avverte addosso è una profonda umidità fredda in scala di grigi, perchè la pioggia – che non guarderete più nello stesso modo – è protagonista da titolo e innesco della narrazione, portatrice di morte e veicolo di velocissimo contagio del mondo intero. Dopo aver terminato l’ultima stagione, l’unico paragone esaustivo in mente era legato all’andamento delle piogge nella Foresta Amazzonica. Nei paesi a clima tropicale, infatti, si avvicendano tre momenti primari: la stagione delle piogge, un periodo di transizione, la siccità. Nel primo step, l’elemento dell’acqua è talmente pervasivo da non lasciar spazio al pensiero di divagare su nient’altro. Questa sensazione si rilassa durante la transizione, momento in cui l’acqua smette di cadere ma resta sugli oggetti e nell’aria, per poi arrivare all’assenza, totale, per un periodo abbastanza lungo da far rimpiangere le piogge ininterrotte. Alla fine della visione questa è la sensazione primaria quando, tornando alla schermata principale di Netflix, leggiamo il titolo della serie e ci rendiamo conto che la pioggia è rimasta solo lì.
Il modo poco funzionale in cui la pioggia sparisce dalla narrazione di The Rain è caratteristica primaria dello svolgimento totale della trama, posizionata da un forte innesco e, poi, orchestrata male con una dispersione di forze e originalità crescente nel corso delle puntate: Simone e Rasmus sono due fratelli chiusi dentro un bunker dal padre quando una pioggia letale affoga il mondo trasmettendo un virus che non lascia scampo. Usciti dopo dieci anni, si aggregano ad altri superstiti in un susseguirsi di vicende che vedono passato e presente miscelarsi in modi continuamente diversi, generando una narrazione molto articolata, anche se non sempre coerente, fino a delineare due schieramenti contrapposti su come approcciare il virus, come studiarlo e cosa farne, caratterizzati da un diverso orientamento al potere e al rapporto uomo-natura. Ma, in questo incastro perenne di personaggi ed espedienti narrativi, il primo violino della serie viene perso gradualmente per strada e dimenticato. Se nella prima stagione, infatti, il titolo della serie coincide col reale protagonista, dall’inizio della seconda stagione la pioggia viene offuscata fino a scomparire completamente nell’ultima.
La terza stagione, composta da 6 episodi, è un brodo allungato e lento con pochi espedienti narrativi degni di nota, mai completamente sviluppati. [Spoiler!] Simone e Rasmus si trovano ad essere eroina e antagonista di due diverse fazioni, un banale bene contro male che ha poca profondità nello sviluppo e nella caratterizzazione dei personaggi. Rasmus passa da essere un irritante adolescente a un irritante adolescente megalomane, convinto dall’Apollon di poter essere il salvatore del mondo. Simone, invece, diviene allegoria della forza della natura in lotta contro la creazione artificiale umana, trovando un fiore capace di distruggere il virus. Si delinea, così, una metafora stretta della società attuale in cui l’inquinamento annerisce il mondo e la natura trova espedienti per rallentare questa malattia degenerativa. Il finale banalmente trovato è, forse, l’unico possibile per una serie TV che ha tutti i requisiti potenziali per essere degna di nota, ma si perde nella trama narrativa bulimica di parentesi quadre e tonde aperte e velocemente chiuse: [Spoiler!] il bene trionfa, la natura salva il mondo dalla pece nere con cui il virus avvolge ogni cosa, un fiore porta nuova speranza. Nell’ultimo saluto che Simone rivolge al fratello troviamo il momento più toccante di tutte e sei le puntate, un tributo al sacrificio fatto in nome dell’amore ossimoricamente sullo sfondo di una città morta.
Se la narrazione non riesce mai ad eccellere per originalità e forza attrattiva, l’estetica nordica, dettata da una palette colori grigia e fredda e da una fotografia minimalista, è degna di nota. La raffigurazione di una Copenaghen distrutta e arroccata su sé stessa è straordinariamente bella e incisiva, colpo attentivo forte che riesce a colmare in parte la lentezza dello svolgimento e l’incapacità di far restare lo spettatore attaccato allo schermo. Accompagna con garbo l’interpretazione emotiva e gentile di Alba August che riesce, non senza suscitare disapprovazione nello spettatore, a restare coerente col suo personaggio nell’unico vero percorso formativo di The Rain, donando coesione a un gruppo che, diversamente, sarebbe un insieme di singoli.
La produzione Netflix, uscita il 6 agosto, lascia sulla punta della lingua dello spettatore l’idea di un gusto mai abbastanza pungente per riuscire a distinguersi dalla saliva. La tensione satura emanata dagli ambienti aperti della prima stagione resta un alone sbiadito in questa. Non avvertiamo più l’instabile pericolo di una pioggia imprevista e letale, persa nella trama narrativa fin dalla seconda stagione. Solo la sensazione potente della mancanza di una visione omogenea della narrazione che porta un nome totalmente estraneo alla sua narrazione.
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