
Intervista a Ermanna Montanari e Marco Martinelli – Il Teatro è l’Altro
I Polacchi, Ubu Burr, Rosvita, Pantani, Inferno, Va pensiero sono solo alcuni dei titoli che vengono in mente quando si pensa a Marco Martinelli e ad Ermanna Montanari, direttori e fondatori del Teatro delle Albe di Ravenna, la cui anima si sviluppa intrecciando la ricerca del “nuovo” al teatro tradizionale. I due autori di fama internazionale, Marco Martinelli, drammaturgo, ed Ermanna Montanari, attrice e scenografa, hanno accettato di confidarsi con noi per rivelarci la loro ispirazione teatrale, il loro metodo di lavoro, i loro sogni e le loro speranze, in un appassionante confronto fra pluralità e alterità.
Si ringraziano in particolare Maria Fera e Stella Civardi per il prezioso aiuto nel concepimento e nell’ideazione di questa intervista.
Buongiorno Marco, Buongiorno Ermanna. Come state, come passate queste giornate?
Ermanna Montanari: In questo periodo “sospeso” dedichiamo gran parte della giornata allo studio. Siamo completamente presi da un libro del filosofo Giuseppe Fornari, La bellezza e il nulla, un meraviglioso volume sulla pittura di Leonardo da Vinci. Fornari non è famoso come Cacciari o Vattimo, ma è un pensatore potente, capace di andare alle origini della nostra cultura e così facendo illuminare il nostro oggi. Marco legge a voce alta e io prendo appunti, e spesso ci fermiamo su una frase, un concetto, discutiamo e approfondiamo andando a pescare altri libri dagli scaffali. Ma facciamo anche altro: Marco sta montando un film tratto da immagini del nostro repertorio teatrale, e io sto facendo un libro iconografico sugli oltre trent’anni del Teatro delle Albe.
Direi che state impiegando benissimo il vostro tempo…
E. M.: Stiamo anche finendo di mettere a punto il CD di fedeli d’Amore, che, a pandemìa finita, sarà pubblicato dall’etichetta Stradivarius, con la musica di Luigi Ceccarelli, la regia del suono di Marco Olivieri e la tromba di Simone Marzocchi. In tempi “normali” si è sempre così affacendati, tra prove e spettacoli e spostamenti continui per tournées e alberghi e ristoranti… Quando mai abbiamo avuto un tempo così lungo da dedicare alla ricerca? È un lusso che non va sprecato.
Marco puoi raccontarci del film al quale stai lavorando, di che si tratta?
Marco Martinelli: Sto lavorando a un film su Ermanna. Si intitola Er e ha come filo conduttore il mito platonico di Er, il guerriero antico, la cui anima, al momento della morte, scende nei regni dell’aldilà e, una volta visitati, tornerà tra i viventi per raccontarli. Mi è sembrata una perfetta metafora del lavoro dell’attore, della sua qualità sciamanica, in grado di scendere nel regno della psiche per raccontarcene le tante figure. Ho preso materiali dal nostro archivio video, frammenti di spettacoli dalla fine degli anni Ottanta a oggi. È un lavoro che faccio con Francesco Tedde; avevamo iniziato prima della pestilenza, adesso continuiamo a lavorare insieme a distanza. Francesco ha in casa tutte le “macchine” necessarie per realizzarlo. È un lavoro di riscrittura attraverso il montaggio: non dobbiamo girare nulla, si tratta di comporre un nuovo mosaico di immagini, riassemblando insieme le figure create, inventate, incarnate da Ermanna negli ultimi 30 anni.

Un lavoro alla Enrico Ghezzi potremmo dire…
M. M.: Diciamo che non vedevo l’ora di mettere mano a un patrimonio di ore e ore e ore di spettacoli.
Vorrei fare un attimo un passo indietro per permettere ai lettori di conoscervi meglio. Cosa intendete quando parlate di “teatro di carne” e “teatro politttttttico”, con sette T? So che vado molto alle origini, ma mi piaceva quando ho trovato queste definizioni.
M. M.: L’espressione “teatro di carne”, in questi mesi di coronavirus, può suonare strana, ma anche oggi contiene l’essenziale, come trent’anni fa, come tremila anni or sono: nel senso che, se non c’è la carne, non c’è il teatro. Se non c’è il corpo vivo dell’attore, se non c’è quello dello spettatore, non c’è il teatro. Sento dire in giro: «come cambierà il teatro dopo questa epidemia? Dovremo praticare una scena con le mascherine, con gli spettatori distanziati, ecc…?» Mi sembrano tutte sciocchezze: il teatro è la carne mortale e gloriosa del nostro corpo: questa è la sua essenza. Non dobbiamo mai dimenticare che Shakespeare e Molière e i grandissimi drammaturghi esistono solo se sulla scena c’è «un povero guitto», «a poor player» come dice il Macbeth, che per un’ora delira e incarna quelle parole di «sound and fury». Il teatro “politttttttico” ne deriva. Il corpo dell’essere umano, di ogni essere umano, attore o spettatore, è sovrano del rito teatrale. Pensa a quale singolare assemblea democratica è il teatro, composta da monarchi, che, utilizzando gli strumenti del canto e della recitazione e della danza, tutto possono “sviscerare”, alla lettera, “indagare le viscere” dell’economia, della politica, i palpiti del singolo cuore come il destino del pianeta. Quando eravamo giovani, andava per la maggiore un teatro politico fatto di arroganza e di risposte prefabbricate. Poi gli anni Ottanta, nel denunciare i paraocchi di certe ideologie, hanno purtroppo buttato a mare anche la sacrosanta tensione politica del teatro, legata appunto alla tensione dell’essere polis. Scrivendo il manifesto del teatro politttttttico con sette T, questo intendevamo, e intendiamo ancora oggi: nessun dorma! Continuiamo a vegliare. Continuiamo a porci le domande importanti sul nostro essere umani, le domande sulla violenza che continua a dilaniare il mondo nonostante gli sbandierati progressi, le domande su quelli che Teresa d’Avila chiamava i nostri “desideri infiniti”.

Visto che avete detto più volte che il vostro lavoro si interfaccia con il cambiamento dell’Italia, pensate di attingere dal periodo presente del materiale per i vostri futuri lavori oppure resterà un’occasione per scavare di più nella vostra interiorità e dedicarvi ad altri progetti?
E. M.: Ci sono eventi che ci piombano addosso, in cui non possiamo fare a meno di essere immersi. Per esempio, il fenomeno delle traversate sui barconi, come da anni ha influito sulla nostra vita. Non potevamo non “cantarlo”, per questo già nel 2010 abbiamo messo in scena Rumore di acque, quando tanti reagivano con indifferenza a quelle statistiche di naufragi, reputandolo un problema di “altri”. E’ la necessità che muove il nostro “fare”, che ci fa incontrare temi e figure che chiedono di essere raccontate, che dettano i titoli dei nostri lavori, da Pantani a Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi. La pandemia, questo tempo in cui siamo immersi, ci tocca, ci fa tremare, e allo stesso tempo ci fa sgranare gli occhi. Non possiamo sapere oggi come sarà il dopo e di cosa ci sarà bisogno. Stiamo all’erta. Ci auguriamo e confidiamo in un’apertura, una possibilità di azzurro. Ma non stiamo ancora scrivendo nulla al riguardo: ora ci siamo dentro, la protagonista è la peste, e possiamo solo stare in ascolto del nostro presente.
Qual è l’importanza dell’Altro nei vostri spettacoli?
M. M.: È la radice di tutto. Del nostro lavoro, della nostra vita, della nostra visione del mondo. Non c’è separazione tra arte e vita. L’altro per me è Ermanna. L’altro sono Luigi e Marcella, i compagni con cui abbiamo fondato la compagnia, l’altro sono tutti gli adolescenti che abbiamo incontrato nella non-scuola, l’altro sono quelli tra loro che dopo la non-scuola sono cresciuti a bottega con noi, che avevano quattordici anni quando li abbiamo conosciuti e oggi sono uomini e donne maturi, l’altro sono le migliaia di persone con cui abbiamo lavorato, e in questo numero metto con rilievo gli spettatori perché lo si crea insieme, il teatro, l’altro è il prossimo invisibile, invisibile perché non mi è prossimo, mi è lontano, eppure mi è prossimo anche se vive dall’altra parte del mondo. È una spirale infinita. Non ci è mai bastato l’io, abbiamo sempre avuto bisogno di questo specchio possente che ci aiutasse a leggerci.
Anche nel concepimento degli spettacoli c’è sempre una matrice corale?
E. M.: Il teatro, fin dalle origini, è innervato nel coro. È coro, cerchio danzante. Io e Marco siamo già un coro: ogni lavoro nasce dal dialogo, da un’ideazione comune. Niente di idillico in tutto questo, sia ben chiaro: per andare accordati e all’unisono, è necessario passare attraverso i fraintendimenti, il non essere d’accordo, il vederla in maniera diversa, e quindi anche momenti difficili, di scontro. Bisogna passare attraverso il fuoco, al fine di una ricerca autentica. È questo, credo, che intendeva Antonin Artaud quando parlava di «teatro della crudeltà»: per cogliere il vero occorre una disciplina esigentissima, occorre scrutare nel buio della nostra anima, nei viluppi e nei bassifondi del nostro vivere “civile”, facendone emergere quella violenza che “normalmente” si preferisce non vedere.
Il teatro può essere d’aiuto ai ragazzi per scoprire il loro corpo e affrontare i loro problemi?
E. M.: Il teatro va incontrato, questo da decenni pratichiamo con gli adolescenti nella non-scuola: è l’incontro/scontro in cui ci si ferisce. È contagio e cura allo stesso tempo: contagio perché ci annienta, ci mette davanti allo specchio del nostro “male”, del nostro disgregarci, del nostro essere “nulla”, cura perché da quel “male” fa emergere una sorprendente, invincibile bellezza. Ritornano le parole di Fornari che stiamo leggendo in questi giorni, “l’ostinato rigore” di un artista come Leonardo.
Cosa pensate del rapporto fra teatro e cinema?
M. M.: Beh, amiamo il cinema da sempre, ci ha sempre accompagnato. Vedere e rivedere i film di Pasolini, Fellini, Olmi, Derek Jarman, è stato importante come leggere e rileggere le drammaturgie di Euripide e Georg Büchner, come vedere a teatro Carmelo Bene e Leo de Berardinis. Da sempre avevamo il desiderio di arrivare al cinema, ma non ci siamo mai veramente attivati per registrare i nostri spettacoli in video, lo facevamo, sì, ma quasi di controvoglia.
E perché?
M. M.: Perché i video degli spettacoli, in genere, sono ingannevoli, tolgono tutta l’aria che c’è intorno ai corpi vivi. Per realizzare una vera testimonianza di un lavoro teatrale non puoi limitarti a un generico lavoro di ripresa, devi fare un salto di linguaggio. Devi “tradire” se vuoi veramente “tradurre” in un’altra lingua. È quello che abbiamo inteso fare con Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi, un nostro spettacolo del 2014: lo abbiamo “trasfigurato” in cinema, senza che perdesse il sapore del palcoscenico che lo aveva generato. Nel nostro lavoro il teatro e il cinema sono intimamente legati, ma l’uno non è l’ancella dell’altro, sono entrambi sovrani nel loro ambito. E anche il mio secondo film, The Sky over Kibera (2019), che ho girato in Kenya, nasce da un’esperienza teatrale, ovvero la Divina Commedia reinventata in un grande slum di Nairobi, lavorando con 150 bambini e adolescenti. Di Er, che gioca nel titolo con il nome di Ermanna intrecciato al mito platonico, ti ho detto prima. Sono tre lavori che “dialogano” con la messa in scena e allo stesso tempo sono assolutamente cinema: sono l’incanto di quella finestrella-schermo sul mondo.
Cosa vi ha affascinato di più della figura di Dante e della Divina Commedia quando avete iniziato a concepire Inferno nel 2017 e poi Purgatorio?
M. M.: Quello per Dante è un amore di lunghissima data. Risale ai tempi della scuola, quando negli anni Settanta io ed Ermanna frequentavamo a Ravenna il Liceo Classico “Dante Alighieri”. La Divina Commedia per noi è sempre stato un “libro sacro”, un “oracolo” da consultare, prezioso nel lavoro come nel nostro quotidiano, e più volte ci aveva sfiorato l’idea di “mettere in vita” quel poema smisurato. Dante è «the everyman», come dice la definizione insuperata di Ezra Pound: è l’umanità intera che si perde nella selva oscura, e desidera la felicità, è l’umanità intera che, sul modello di quel fiorentino del Duecento, anela a uscire dal nero carcere dell’Inferno per trovare Amore, la forza che «muove il sole e le altre stelle». Non sembrano passati sette secoli: Dante parla a noi, oggi, con parole che ancora infiammano. Quando Ravenna si è candidata a Capitale Europea della Cultura, presentammo all’assessore alla cultura Alberto Cassani un ambizioso progetto sulla Divina Commedia, ambizioso perché non si trattava di uno spettacolo diciamo “normale”, con gli attori sul palco e gli spettatori in platea: si trattava di reinventare una sacra rappresentazione medievale, con una gran partecipazione di popolo, o se vuoi, che è lo stesso meccanismo, un teatro di massa come quelli realizzati da Vladimir Majakovskij nei primi anni dopo la rivoluzione russa: si trattava di creare un corto circuito tra artisti e cittadini usando gli spazi urbani, coinvolgendo attivamente centinaia di cittadini ravennati, farli cantare e recitare come accadeva nei “modelli” teatrali che ti dicevo prima. Cassani fu entusiasta dell’idea e ne fece uno dei progetti centrali del programma di candidatura. Poi a vincere fu Matera, e per qualche tempo accantonammo la sfida. Ravenna Festival, nelle figure dei suoi direttori Antonio De Rosa e Franco Masotti, ci chiese pochi mesi dopo se non era il caso di riprendere quella scommessa, di produrla insieme. E così è stato. Quando poi Matera ha stilato il suo programma di Capitale della Cultura, ironia della storia, ci ha chiamati a mettere in scena Purgatorio tra i “sassi”, realizzando un bel gemellaggio tra le due città.

Nella vostra Divina Commedia c’è un forte dialogo fra elemento maschile e femminile. Il solo fatto che voi rappresentiate, insieme, un Virgilio che è contemporaneamente Donna e Uomo è assai significativo.
E. M.: La guida, per noi e per Dante, è maschile e femminile insieme. È solo ascoltando il maschile e il femminile insieme, che ci salviamo. Per questo eravamo due a guidare gli spettatori all’Inferno, eravamo due a scortarli sulla montagna del Purgatorio, saremo ancora due ad ascendere i cieli del Paradiso. Insieme Virgilio e Beatrice e San Bernardo, la catena di mani che fanno evadere il pellegrino Dante dalla selva oscura e lo conducono all’Empireo. Dante, il padre della letteratura italiana, è anche il meno patriarcale dei nostri poeti, e nel suo profondo cristianesimo ci ricorda che «Dio creò l’uomo – ovvero l’umanità – maschio e femmina», come sta scritto nella Genesi. La prima radicale dichiarazione di parità reciproca fra i sessi, di uguale dignità, è nella Genesi, non dimentichiamolo.
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