
Immunity – Intervista a Sara Grimaldi
Ho visto il nuovo lavoro di Sara Eleonora Grimaldi in un momento che ritengo non essere casuale. Avevo infatti da poco finito di spiegare ai miei ragazzi il titanismo del XIX Secolo (Alfieri, Foscolo e compagnia bella) e non ho potuto fare a meno di apprezzare un certo parallelismo tra il contenuto della corrente romantica con il messaggio di Immunity, che non esito a definire un prodotto “neo-titanico”.
Quella di Matteo al pari di quella di altri immunodepressi dalla nascita, è una storia che mette al centro le nicchie del nostro vissuto quotidiano e ci invita a scoprire il coraggio dei piccoli gesti che precede i grandi risultati. La storia ruota attorno alla condizione dell’immunodepresso, alla sua vita di tutti i giorni e alle mille sfide da affrontare anche assieme ai loro cari. Al centro della narrazione c’è quindi Matteo Pellegrinuzzi, marito di Sara, ma attorno a lui ruotano altre persone affette dalla stessa patologia, con storie e vissuti personali diversi. Tra interviste e riprese rubate, la narrazione procede gradualmente ma mai lenta e si nota una precisa scelta della regista nell’ordinare i diversi interventi, come se ognuno degli intervistati offrisse una panoramica della condizione sempre più ampia e completa. C’è chi ci parla della propria vita lavorativa e del rapporto coi colleghi, chi ci offre una retrospettiva sulla propria adolescenza, chi ancora educa i propri figli a essere, nel loro piccolo, degli infermieri.
Il piatto forte del documentario, giustamente, ci aspetta alla fine: Matteo che percorre Parigi-Londra in bici in 24 ore. Il messaggio del film è chiaro fin dall’inizio, un immunodepresso non è una persona di vetro ma una persona che può avere una vita piena e eccitante. L’impresa di Matteo è foriera di un messaggio, diciamo così “neotitanico”, che proprio in questi giorni assume un’importanza ancora più vitale per chi è nelle condizioni di Matteo, Sabrina e gli altri protagonisti del film: avere cura come atto rivoluzionario. Ecco perché Immunity è molto più che un documentario che vuole sensibilizzare su una certa condizione medica ma un delicato invito alla cura del proprio ecosistema sociale.
A film concluso ho scambiato, quattro chiacchere con la regista (di cui ho già avuto il piacere di parlare riguardo un suo altro film) sul film e la sua realizzazione.
È chiaro che in Immunity la storia e la condizione di tuo marito siano una componente motivazionale molto forte, ma c’è stato un momento in cui tu o Matteo avete deciso che questo film doveva diventare realtà?
Matteo lavorava a questo progetto da quattro o cinque anni a dire il vero e inizialmente era un progetto fotografico sui deficit immunitari che si è evoluto successivamente in un film. Matteo ne parlò col suo ematologo il quale gli suggerì di entrare in contatto con un’associazione che si occupa dei pazienti così che potesse indirizzarlo verso potenziali soggetti fotografici. Da lì è entrato in contatto con Iris che ha sovvenzionato il primo progetto fotografico. Ma era un progetto difficile da realizzare in quanto un immunodepresso esteriormente non ha niente di particolare, non è cioè riconoscibile come può essere, ad esempio, un malato di cancro che perde i capelli. I pazienti che poi Matteo incontrava gli raccontavano la loro vita ed è stato lì che Matteo si è reso conto che sarebbe stato un peccato perdere queste informazioni. A quel punto abbiamo cominciato a pensare insieme, circa tre anni fa, di realizzare un documentario. Inizialmente però doveva essere molto diverso da quello è diventato. Avevamo conosciuto un ragazzo, o meglio un giovane adulto, che era stato trapiantato, fatto rarissimo dato che gli adulti non li trapiantano quasi mai. Io mi ero fissata con questo ragazzo, volevo a tutti costi raccontare la sua storia e magari creare un intreccio con un bambino che doveva essere trapiantato e farli incontrare nel mio film. Nel frattempo, però questa persona è sparita e nel mentre io e Matteo siamo andati avanti col progetto. La prima persona che abbiamo intervistato è stata Sabrina ma a quel punto io non ero più molto a mio agio con la forma che stava prendendo il progetto, poiché sarebbe diventato poco più che un collage di interviste, al meglio un reportage, e non sarebbe stato più un documentario, perché un documentario deve avere una storia. Del resto, è una cosa che dico ripetutamente ai miei studenti <<un documentario deve avere sempre una storia da raccontare>> ma quello che stava venendo fuori con le sole interviste mancava proprio di una storia, ed ero scontenta perché mi contraddicevo con ciò che insegnavo. Poi però, riflettendo tra me e me, ho realizzato che una storia ce l’avevo e proprio in casa mia. Matteo stava preparando la Parigi-Londra e questa era proprio il tipo di storia di cui avevo bisogno. Ora rimaneva solo da convincere lui. Tornata in hotel (all’epoca ero lontana da casa) mi ero già immaginata l’inizio e la fine del film, l’avevo scritto e ho chiamato Matteo proponendogli la mia idea. Non è stato facile poiché in una prima istanza si era rifiutato. Ho insistito, ne abbiamo riparlato e infine ha ceduto. Ma come ho detto non è stato facile è all’inizio per lui era difficile stare davanti alla telecamera e parlare. Oggi invece dice che il film che lo commuove. Ma per rispondere alla domanda, ci siamo resi conto che le sole foto non funzionavano mentre con le interviste era possibile raccontare una storia e mentre Matteo preparava Parigi-Londra la cosa è diventata praticamente ovvia.
Avete proiettato il film lo scorso 29 febbraio e in confidenza mi hai già detto che è andata bene. Vuoi raccontarci qualcosa di più?
Abbiamo presentato il film al cinema Le Balzac, un cinema d’essai molto famoso sugli Champs Elysees dove fanno anche dei festival e sono stata molto contenta di presentarlo lì. Nel nostro caso però si è trattato di un evento privato e non di una presentazione ufficiale vera e propria. È stato un sabato mattina, all’evento si erano iscritte più di cento persone ma, penso già a causa dell’allerta coronavirus, alcuni non si sono presentati. Alla fine, abbiamo avuto tra le ottanta e novanta presenze, quindi molte persone considerando poi che era una proiezione di sabato mattina alle 10:00 ed è seguito almeno un’ora di dibattito. C’era anche l’ematologo di Matteo, il professor Suarez, il direttore della Ceredih, il centro delle malattie rare, il dottor Mahlaoui, e abbiamo avuto modo di parlare sia della malattia in sé, sia di come abbiamo realizzato il film. Non è un caso poi che il film sia stato presentato il 29 febbraio, giornata internazionale delle malattie rare. C’erano anche alcuni rappresentanti di laboratori farmaceutici che hanno espresso interesse nel proiettare questo film nei loro centri di ricerca.
Personalmente sono rimasto ammaliato dai momenti intimi e di tenerezza che hai inserito e ho due curiosità da chiederti al riguardo. Il momento in cui parli con Matteo a letto con quale strumento l’hai girato? Inoltre, non ho potuto fare a meno di notare che in non pochi di questi momenti, sia con te e Matteo ma anche con altri intervistati, la lingua parlata è l’italiano. Si tratta di una semplice causalità che ho notato in un picco di orgoglio patriottico o è una precisa scelta questa alternanza delle lingue? Quasi come a voler evidenziare due dimensioni del racconto diverse?
Per quanto riguarda le scene girate di notte, tieni presente che io avevo la fotocamera in funzione videocamera sempre montata e pronta per girare, una Nikon D500 con microfono. Per esempio, nella scena dove c’è l’infermiere e non funziona la pompa, quel giorno in teoria non dovevo girare. Quando ho capito che la situazione era più complicata del previsto ho capito che era il caso di documentare. E mi sono imposta una certa distanza. È vero stavo riprendendo mio marito ma stavo anche documentando qualcosa e ho registrato molte volte e non tutte le scene sono arrivate al taglio finale. Ad esempio, in una scena che non è arrivata al montaggio finale c’è Matteo sta stirando con un casco in testa (che gli hanno messo i bambini) ed era molto arrabbiato perché gli avevano dato un appuntamento per una visita in ospedale in una data in cui non poteva andare. Anche in quel caso quindi ero pronta a girare così come ogni qual volta ritenevo che la situazione richiedesse di essere documentata. Poi per quanto riguarda la lingua, io e Matteo parliamo in italiano e non parliamo mai in un’altra lingua. Magari a volte diciamo delle frasi o delle parole in un’altra lingua perché viene più veloce ma a casa e coi nostri figli parliamo in italiano non tanto per una questione patriottica ma pratica. Invece Nicolas parla in italiano perché ha vissuto più di dieci anni in Italia e per questo lo parla molto bene. Ogni volta che ci vediamo gli viene automatico parlare in italiano. Addirittura, l’intervista voleva farla in italiano, sono io che mi sono opposta.
Vorrei ancora soffermarmi sul montaggio, che dal punto di vista tecnico è la parte che forse ho più apprezzato di tutto il film. Come hai lavorato durante questa fase? Hai seguito un’idea particolare?
In realtà ho lavorato con un montatore, Italo Scialdone, che ha già lavorato su Gatta Cenerentola e vive a Parigi. Abbiamo lavorato insieme ma in effetti io ho una base da montatrice quindi quando giro penso già alla fase di montaggio. Infatti, a me viene un po’ difficile lavorare coi montatori perché li trovo un po’ lenti. Avendo però io già scritto il montaggio vero e proprio è stato tutto più facile. Ti racconto un aneddoto interessante. Quando ho presentato il progetto del film a una casa di produzione, per la verità erano due ragazzi che avevano una società, non sono stata capita. Sostenevano che il film così non avesse senso, in particolare non capivano come la storia di Matteo si collegasse alle interviste. Ma nella mia testa aveva perfettamente senso e nel risultato finale il film è molto simile a come l’avevo io in testa. Fin dall’inizio, volevo inserire questi flash, questi “respiri” di altre persone proprio per offrire delle visioni diverse. E la bicicletta era il filo conduttore di tutto. A lavoro finito l’abbiamo fatto vedere a una collega di Matteo, montatrice anche lei, e ha elogiato il lavoro. Anzi fosse stato per lei avrebbe anche messo più biciclette. Io parto sempre da una visione e quella visione mentre lavori prende forma e ti guida.
Andiamo alla parte più succosa, la Parigi-Londra. Ci racconti qualche aneddoto divertente?
Oh beh, tutta l’esperienza è stata un po’ particolare, a cominciare dai bambini che abbiamo messo in macchina mentre dormivano, poi si sono svegliati e io non hanno più dormito praticamente fino alle 03:30 e ogni volta che vedevano passare Matteo gridavano “papà!”. Matteo e David poi [un altro ciclista che li ha accompagnati ndr.] in bici hanno visto una volpe all’alba che li ha aspettati, quasi per salutarli per poi scomparire. Arrivati alla frontiera, ci hanno fermati a io non avevo il certificato di famiglia con tutti i dati e quindi dal momento che io e bambini non abbiamo lo stesso cognome non ci volevano far passare. Non so, se è divertente ma di sicuro è stato stressante [ride]. Poi non so se si è notato ma per un po’ci ha accompagnato un terzo ciclista che però ci ha abbandonato per ragioni che non ho mai capito del tutto. A Londra poi, quando finalmente li abbiamo raggiunti, abbiamo perso Matteo e David perché i due GPS di David non si orientavano più perché avevano perso il segnale e abbiamo scorrazzato per Londra a una velocità incredibile. Io, che li seguivo tramite il GPS di Matteo, a un certo punto ho urlato «ma stanno attraversando un parco» che non era assolutamente necessario attraversare e in cui noi non potevamo entrare. Poi mi ricordo che quando eravamo quasi giunti all’ospedale io e l’autista avevamo un terribile bisogno di liberare la vescica e abbiamo accostato vicino a un boschetto nei sobborghi di Londra. Ci ha fatto ridere perché avrebbe potuto beccarci qualcuno ma eravamo così stanchi che è stato puro istinto di sopravvivenza. Una nostra amica cuoca poi, in collaborazione con una nutrizionista, ci aveva preparato delle barrette energetiche ma erano talmente tante che per tutto il ritorno non abbiamo mangiato altro.
Un’ultima domanda, concernente l’attualità più stringente. Stiamo vivendo una situazione di crisi sanitaria mondiale. Come state vivendo questa emergenza? Magari state già raccogliendo del materiale per un nuovo docu-film?
Io sono un po’ angosciata dalla mancanza di libertà. Stiamo facendo delle interviste via Skype a persone in ogni parte del mondo su come stanno vivendo la quarantena. Poi volevo dire una cosa legata al documentario: con la crisi da pandemia globale sono diminuite le donazioni di sangue e plasma e il rischio e che ciò si ripercuota anche sulle immunoglobuline, che Matteo prende una volta al mese. Questo lo sapremo tra un anno perché ci vuole un anno per renderle disponibili dal plasma donato.
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