
Female Pleasure – La recensione | Gender Bender 2019
In occasione di Gender Bender – festival interdisciplinare che affronta le tematiche della rappresentazione del corpo, dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale – è stato proiettato a Bologna Female Pleasure (2018), documentario diretto della regista svizzera Barbara Miller. Il film, presentato al Festival di Locarno, è stato vincitore del Premio Zonta alla Semaine de la Critique (sezione indipendente del Festival di Locarno).
«Il corpo della donna è osceno e la sessualità femminile deve essere controllata»: religione(/i), tradizioni culturali, habitus – avrebbe detto Pierre Bourdieu – perpetrano la riproduzione della società, e con essa una serie di pratiche (anche inconsce) relative al mantenimento delle strutture patriarcali. Ovunque nel mondo -anche nel nostro Occidente “progressista” – la donna è spesso vittima di un’alienazione, oppressa da una morale che vuole le donne sempre funzionali all’appagamento di qualcun altro da sé, il che si riversa in un rapporto conflittuale con il proprio corpo. Il tema centrale di Female Pleasure è proprio la negazione del diritto al piacere sessuale femminile, diritto che Barbara Miller rivendica come universale. Ma soprattutto il film è un inno alla liberazione della sessualità femminile, e ne canta le lodi attraverso le voci di cinque donne.
Deborah Feldman, Rokudenashiko, Leyla Hussein, Vithika Yadav e Doris Wagner provengono dalle più disparate parti del globo, eppure hanno molto in comune. Soprattutto, condividono il coraggio nell’affermare la rivendicazione al diritto di scegliere come vivere la propria vita e all’essere padrone del proprio corpo e dei propri sentimenti. Attraverso le loro voci il documentario affronta i temi della mutilazione genitale femminile, dello stupro, del matrimonio combinato, dell’ingerenza dei dogmi societari e religiosi nella percezione della donna, dell’amore. Barbara Miller intende ribaltare lo stereotipo della donna mercificata e sessualizzata.
Esemplare in tal senso è proprio la sequenza di apertura del film, che si serve di immagini pubblicitarie, di opere d’arte e di found footage (accompagnate dalla voice over delle protagoniste) al fine di mostrare la contraddizione in essere di un’idea di donna “diavolo e santa”. Il potere delle immagini di veicolare significati è fondamentale perché colpisce l’inconscio dello spettatore, anch’esso inconsapevolmente portatore di un retaggio culturale maschilista. Nel modo che abbiamo di esprimerci, ad esempio. Nelle parole delle donne protagoniste si rivede infatti una grande attenzione al linguaggio, che è uno dei primi sintomi alla base della riproduzione delle strutture patriarcali: dalle frasi tratte dai testi sacri che ci vengono mostrate sullo schermo, all’attenzione posta da Deborah Feldman alle parole in lingua yiddish; dal monito di Leyla Hussein «Chiamiamo le cose con il loro nome» al dilagante timore di pronunciare la parola vagina.
Non manca nel documentario una certa propensione all’ironia. Del resto, l’artista giapponese Megumi Igarashi – in arte Rokudenashiko – è capace di reagire con grande prontezza e spirito alle accuse di oscenità che le sono state mosse (e al conseguente processo) per aver realizzato un kayak basato sul calco della propria vagina (sì, nello stesso Paese in cui si celebra il Kanamara Matsuri, “la festa del pene di ferro”).
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