
Dedicato a chi resta: “Ride”
Ride, nelle sale dal 29 novembre (qui il trailer ufficiale), rappresenta il felice debutto alla regia di Valerio Mastandrea – attore italiano tra i più noti e talentuosi della sua generazione – che in questa sua opera prima mette molto di se stesso, tanto che, durante la visione, sembra di riconoscerlo, di avvertirne la presenza. In una recente intervista rilasciata a Vanity Fair, Mastandrea ha dichiarato di aver fatto spesso fatica, nella vita, ad esternare le proprie emozioni, che manteneva nascoste «dietro a veri portoni di acciaio».
E proprio di questo parla il film, di emozioni. Emozioni che sembrano nascoste, ma solo perché differenti da quelle che ci aspetteremmo di vedere. Quelle a cui assistiamo sono le reazioni di un figlio, una moglie e un padre di fronte alla scomparsa – sul lavoro – di un operaio, per loro, rispettivamente, padre, marito e figlio. Una storia che parte da una morte, ma racconta di chi resta, di chi si trova, da un giorno all’altro a dover affrontare un lutto, cosa che comporta innanzitutto un’analisi introspettiva e dunque fare i conti col senso di colpa: la colpa di non aver protetto un figlio, la colpa di non riuscire appieno ad adempiere al dovere – imposto da convenzioni sociali – di stare male per la morte di un marito, la colpa di comprendere che la vita va avanti anche senza un padre.
Senso di colpa che sembra essere personificato nel personaggio – misterioso – interpretato da Stefano Dionisi, che, quasi come uno spettro di dickensiana memoria, va a fare visita a due dei protagonisti (quelli assegnati a Chiara Martegiani, compagna di vita del regista esordiente, e a Renato Carpentieri), mentre il terzo (Arturo Marchetti, al suo debutto cinematografico) si confronta con una persona decisamente più alla sua portata, ma non per questo meno interessante.
Pur non trattandosi di un vero e proprio capolavoro, questo Ride è senz’altro una bella sorpresa, un film che in soli novanta minuti riesce a far sorridere, commuovere e riflettere, trattando un tema complicato – e importante anche dal punto di vista sociale – con grande rispetto, ma allo stesso tempo con leggerezza e con una delicata ironia, tale da rendere la pellicola tanto godibile quanto difficile da classificare.
Mastandrea si dimostra molto coraggioso realizzando il film che da anni sognava di dirigere, pur riconoscendone la difficoltà; il risultato è un’opera prima più che dignitosa, seppur con le sue comprensibili imperfezioni. Una pellicola originale nella sua semplicità, mai banale e mai noiosa, nonostante lo scarso dinamismo che caratterizza sia i personaggi che le riprese e che, anzi, contribuisce a rendere ancor più singolare – e apprezzabile – l’esperimento dell’attore romano. Anche la scelta degli ambienti, che rimangono sostanzialmente tre (uno per protagonista) fino agli ultimi minuti del film (in cui le cose si complicano un po’), contribuiscono a rendere quest’ultimo un qualcosa di molto intimo e personale, proprio come i sentimenti che ognuno dei personaggi principali prova.
Vale la pena di fare un’ultima riflessione sul titolo, Ride (terza persona singolare del verbo ridere e non traduzione inglese del verbo guidare!), parola estrapolata da un dialogo in cui il figlio rimprovera la madre, che, in risposta, si abbandona a uno sfogo che rappresenta certamente un punto chiave. In esso (associandolo, naturalmente, alla tematica) si ritrova già il concetto alla base del film, ovvero quel contrasto, vissuto con vergogna e frustrazione, tra le emozioni che gli altri si aspettano che proviamo e quelle che proviamo veramente.
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