
Marco Baliani si racconta
Marco Baliani, uno dei padri fondatori del teatro di narrazione, sarà in scena il prossimo 15 novembre per l’apertura della stagione del Teatro Volta di Pavia con Ogni volta che si racconta una storia, conferenza-spettacolo tratta dal suo omonimo libro, ci ha gentilmente concesso di porgli qualche domanda.
Il suo percorso teatrale inizia con Ruota Libera, un gruppo fondato nel ‘75, che si occupa di teatro animazione e teatro ragazzi. Cosa ha motivato il passaggio dal teatro ragazzi al teatro di narrazione?
Ho cominciato a fare narrazione per i bambini, all’interno del lavoro teatrale condotto negli anni ‘80 con i ragazzi di alcuni quartieri disagiati. Per interagire con questi ragazzi ho iniziato con i racconti di fiabe tradizionali, da lì ho iniziato ad esplorare il meccanismo dell’oralità. La storia narrata era lo scheletro su cui io iniziavo a creare. Furono anni decisivi anche per la mia formazione: mentre raccontavo iniziavo a prestare attenzione a cosa accadeva al corpo, comprendendolo meglio attraverso Workshop, stage, laboratori sulla narrazione, per poter poi costruire una metodologia.
Si può dire che a livello artistico lei sia partito confrontandosi con la dimensione dell’infanzia. Secondo lei esiste un legame privilegiato fra l’infanzia e la narrazione come forma di comunicazione?
Si, decisamente. Continuo ancora oggi a pensare che la curiosità che deve possedere un narratore di storie, lo stupore che lo deve guidare nel racconto è qualcosa che ha a che fare con la dimensione infantile. Ho più volte detto che il narratore è un protrattore di infanzia: chiaro, quello è un mondo che non gli appartiene più, ma deve sapere scovarne un barlume: non si può raccontare se non stupendosi del contenuto e dell’atto del racconto. Molti che si dicono narratori in realtà non lo sono: sono interpreti di una storia raccontata in maniera adulta che non hanno nulla a che fare con lo stupore.
Lei è anche romanziere e spesso ha messo in scena i suoi testi. Che tipo di differenza riscontra fra la parola scrittura e la parola incarnata dell’oralità?
La scrittura è un mondo quasi agli antipodi dell’oralità. Quando scrivo, scrivo per il lettore, per la pagina, non entro in relazione con il lettore. L’atto dello scrivere e del leggere è individuale. La scrittura presuppone un mondo più ordinato, lineare, la pagina gira da sinistra a destra, c’è un tempo circoscritto, regolato da punteggiature. Quando voglio trasferire il testo alla dimensione orale devo ricominciare da poco, perché nell’oralità interviene il corpo. Intere sequenze di frase, di sfumature, di evoluzioni psicologie vengono agite. Non ho bisogno di descrivere, è tutto visibile. Ciò non significa che non si possa scrivere un testo per poi volerlo dire teatralmente, basta farlo con consapevolezza: in questo caso si assume però la funzione dell’interprete. Corpo di Stato, un mio spettacolo che parla dei 55 giorni della prigionia di Moro, è un testo che è stato pensato per la scrittura, è evidente.

Fra i temi dei suoi spettacoli troviamo episodi della storia recente del nostro paese. Alludo a “Corpo di Stato”, citato da lei prima, o a “Il sogno di una cosa” sulla strage di piazza della Loggia a Brescia. Come contribuisce il teatro a mantenere viva la memoria storica? E con quale particolarità rispetto ad altri media?
Il teatro ha una possibilità, che è una diversità rispetto alle altre comunicazioni: lavora sul simbolo, non ha bisogno della verosimiglianza. Uno spazio di sei metri per sette in cui passa un mondo, che non deve essere rappresentato verosimilmente. Una sedia è un trono, uno spazio spoglio è una reggia. Questo permette al teatro di parlare senza descrivere, senza fare cronaca, ma soprattutto senza spiegare: il teatro non spiega, ma mostra. Mostra i conflitti che sono presenti nella memoria e che possono essere agiti in scena. Senza conflitto non esiste il teatro. Molto teatro di narrazione è scivolato nella spiegazione, penso al teatro civile. Ma il teatro non spiega: il teatro spaventa. In Corpo di Stato il conflitto è: perché io e quelli della mia generazione, nonostante comprendessimo quale tipo di deriva violenta stava prendendo la contestazione, non siamo stati in grado di fermare questa deriva? Lo spettatore vede quel pezzo di storia che conosceva attraverso occhi che non aveva pensato di avere.
Lei ha affermato che senza uno dei suoi primi spettacoli “Kohlhaas” (1989) non ci sarebbe stato “Corpo di stato”.Cosa lega questi due spettacoli?
Intendo questo legame in senso contenutistico: il conflitto di Kohlhaas è molto simile al conflitto di Corpo di Stato. Kohlhaas si chiede cos’è la giustizia di fronte all’ingiustizia: come si può diventare giustizieri davanti ad una giustizia tradita?

Parliamo di linguaggi teatrali: pensa che i nuovi media possano rappresentare una forma di arricchimento anche per una tipologia teatrale caratterizzata dall’essenzialità, come quella del teatro di narrazione?
Dipende da che tipo di spettacolo vuoi fare, quale corda vuoi toccare. Nei Sette contro Tebe, rappresentato a Siracusa, c’era solo un albero artificiale di 4 metri al centro della scena. Era una scena povera, essenziale. Sotto quell’albero pregavano gli abitanti di Tebe, era un simbolo religioso. Invece per un altro spettacolo, Trincea, ho usato il video mapping, che è una forma apparentemente lontanissima dall’oralità. Mi piace molto sperimentare: con la musica elettronica, ad esempio, si possono creare spettacoli meravigliosi.
Quali direzioni sta prendendo la scena italiana e, in particolar modo, il teatro di narrazione?
La narrazione è finita, bisogna fare un salto, inventare nuove cose. Non più Narrazione, ma Post-narrazione: usare nuovi linguaggi, sperimentare con la musica, l’immagine. Il futuro del teatro è fuori dal teatro, va verso la performance per via del modo in cui questa mette in moto la parola insieme all’azione del corpo. Sono convinto che il teatro non morirà mai: in uno società in cui tutto si svolge senza la necessità dell’incontro, del tocco, del contatto, il teatro rimarrà un luogo centrale. Vedo molto fermento, soprattutto nei gruppi giovani, ma il problema resta sempre lo stesso: l’Italia è un paese che non finanzia la cultura. Ma non sono pessimista.
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