Il seme del fico sacro – Dicotomia di un abbraccio asfissiante
«Il ficus religioso è un albero dal ciclo vitale insolito. Contenuti negli escrementi degli uccelli, i suoi semi cadono su altri alberi. Spuntano delle radici aeree e crescono fino al suolo. Poi, i rami avvolgono l’albero ospite e lo strangolano. Alla fine, il fico sacro prevale.»
Così come il fico sacro si avvolge alla pianta madre fino a soffocarla, il potere iraniano si insinua nelle vite, nelle case e nei corpi, stringendo sempre più, fino a togliere il respiro. È questo atto d’accusa a inaugurare la pellicola di Mohammad Rasoulof. Il suo cinema racconta le oppressioni, le restrizioni e la fragilità di un sistema politico fondato sul fanatismo religioso, facendosi megafono del dissenso e grido di resistenza. È proprio in questa doppia anima che si inscrive Il Seme del Fico Sacro, vincitore del Gran Premio della Giuria a Cannes e candidato all’Oscar per il miglior film straniero. Narrazione e denuncia si intrecciano nella storia di Iman, funzionario dello Stato appena promosso giudice istruttore presso il Tribunale della Guardia Rivoluzionaria, e delle sue figlie Rezvan e Sana, sostenitrici delle proteste popolari iraniane “Donna, vita, libertà” (nate a seguito dell’uccisione di Mahsa Amini nel 2022). Le tensioni e le dinamiche familiari si fanno specchio di quelle di un’intera nazione, dove la linea che separa il reato dal peccato si fa indistinta. In questo contesto si consuma lo scontro tra tradizione e modernità, mentre Najmeh, madre e figura di mediazione, tenta di reggere il fragile equilibrio tra queste due realtà inconciliabili.

Ne scaturisce una dinamica mutevole di rapporti di forza, tradotta in un linguaggio visivo carico di tensione. Infatti, le inquadrature iniziali, che racchiudono la famiglia al completo, si sgretolano in primi piani sempre più claustrofobici, amplificando la spirale di terrore e sopraffazione che attanaglia i protagonisti. L’unità iniziale lascia progressivamente spazio a riprese che accostano i personaggi solo in base alla loro vicinanza ideologica, traducendo visivamente le divisioni che attraversano la famiglia. Divisioni che si amplificano a seguito della scomparsa della pistola del padre, momento immortalato con un intenso piano sequenza. Divisioni che diventano irreversibili nel terzo atto, dove le riprese con camera a mano intensificano l’instabilità e l’oppressione, trasmettendo allo spettatore l’angoscia di un equilibrio ormai compromesso.

Un linguaggio visivo che trova ulteriore forza in un montaggio che si fa sempre più concitato, alternando le tradizionali riprese orizzontali ai contenuti verticali dei social network. Sono proprio questi a portare sullo schermo la vera realtà delle proteste popolari, prevalendo sul brusio dei telegiornali, avvalorando le grida e i rumori distanti e mostrando con brutalità e immediatezza la voce e il volto di chi lotta per la libertà.
Il confronto delle sorelle con l’urgenza di questa verità svuota la famiglia del suo significato e la trasforma in un riflesso del Paese. La casa, da luogo di rifugio, si fa prigione e tribunale. Una metamorfosi accentuata da un parallelismo culinario: la pellicola inizialmente indugia sulle pentole borbottanti, sui profumi e i sapori della cucina, vista come gesto d’amore e cura, per poi mostrare pasti miseri a base di legumi in scatola. Un cambiamento netto che segue l’evoluzione del padre, da figura affettuosa a mero esecutore degli ordini del regime (non dissimile dai cartonati posti all’ingresso del suo ufficio). Emblematica, in questo senso, la scena della doccia: nel tepore delle tonalità calde, accompagnate dai gesti affettuosi della moglie, l’acqua assume valore purificatore di corpo e coscienza; nelle fredde tonalità successive diventa invece simbolo di un’investitura quasi sacrale, un’adesione totale e senza riserve al potere. È il momento esatto in cui l’ingranaggio si inserisce nella macchina mortale. Cadono i semi del fico sacro.

E così l’abbraccio paterno, amorevole e rassicurante, si trasforma in una morsa mortale che, lenta e brutale, schiaccia l’intera famiglia. Di conseguenza, il villaggio paterno abbandonato, arido e labirintico (proprio come i giochi di potere del regime iraniano) assume il senso di un ritorno al passato e alle tradizioni. Ma le figlie vi si oppongono: Rezvan, la maggiore, incarna l’anima ideologica della resistenza, cercando il dialogo; Sana, la minore, ne rappresenta il volto pragmatico, deciso a evitare la violenza pur senza arretrare. La pistola rubata e mai utilizzata diventa così un messaggio chiaro di disarmo: smascherare un potere sempre più fragile, destinato a seppellirsi da solo. Accanto a loro, l’arte e la memoria assumono un ruolo decisivo: la cinepresa, usata come strumento di sorveglianza e interrogatorio, custodisce al contempo i ricordi felici della famiglia; il canto femminile, relegato a vecchie cassette dimenticate in polverosi magazzini, risuona come l’eco di una libertà che il regime tenta invano di soffocare.
Una libertà che si manifesta nel volto sfigurato di Sadaf, ma anche nelle danze sinuose, negli hijab che cadono liberati dal peso dell’oppressione, nel rombo di una moto che corre contro il vento, nelle grida vittoriose che si elevano come un canto di speranza e rivolta: donna, vita, libertà.
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