La Palestina in dieci immagini di Elia Suleiman
«Non sto parlando dei palestinesi. Sto parlando di tutti i conflitti, di tutte le regressioni, di tutti gli inquinamenti, del crollo [economico globale] e della globalizzazione. In effetti, Il tempo che ci rimane non è affatto una metafora della Palestina. Per niente. Viviamo oggi in un luogo chiamato “il globo” che contiene una molteplicità di esperienze. I miei film non parlano necessariamente della Palestina. Sono la Palestina perché io vengo da quel luogo: rifletto la mia esperienza, ma identificandomi con tutte le Palestine che esistono. La parola ‘conflitto arabo-israeliano‘ mi è estranea in termini di poetica della parola. Non credo che il mio cinema riguardi propriamente questo»
→ Intervista completa sul sito dell’European Graduate School
Per strano che possa sembrare leggere queste parole da quello che forse è il più importante regista palestinese, esse sono in realtà perfettamente integrate nell’estetica del regista nazareno. A ben guardare infatti Elia Suleiman è lontano dalla figura del “regista impegnato”. Il suo è un cinema non tanto della denuncia ma dell’attesa. Attesa per tempi migliori in cui gli sarà finalmente possibile fare cinema per il gusto di raccontare una storia. A causa della sua condizione di artista senza patria – come lui stesso si definisce («Non ho una patria per poter dire che vivo in esilio. Vivo in post-mortem. Vita quotidiana, morte quotidiana») – Suleiman usa il cinema per raccontare una condizione straniante, assurda e potenzialmente immodificabile. Per questo il nonsense è il tratto caratteristico della sua narrazione. Una situazione assurda, come quella di chi vive sotto occupazione, non può essere spiegata se non con gli strumenti stessi dell’assurdo. Così come il suo minimalismo, che non è mai vessillo di una poetica autoreferenziale, adempie a un’altra missione meta-testuale: decostruire la retorica della “situazione complessa” mediorientale con poche e semplici immagini. Oggi, forse, possiamo avvicinarci alla comprensione della Palestina partendo proprio dal cinema di Suleiman, attraverso dieci immagini estrapolate dai suoi film che toccano questioni nodali e mai risolte del conflitto. Perché neanche il cinema di Suleiman è iniziato il 7 ottobre 2023.
1. La telefonata di Adan (Cronaca di una sparizione, 1996)
Adan (Ola Tabari) è una studentessa che sta cercando una sistemazione per i fatti suoi. Sfida le convenzioni della sua famiglia e del suo popolo, quello arabo, che la vorrebbero al sicuro a studiare a casa a preservare il suo “onore”. Da un telefono pubblico chiama un’agenzia immobiliare per chiedere informazioni circa un appartamento per il quale aveva espresso interesse. La scena è un illuminante mosaico di tutte le forme di razzismo possibili che gli arabi subiscono da parte dei coloni. Adan non fa una ma più chiamate, fingendo di essere ogni volta una persona diversa. In una si presenta in quanto araba, in un’altra parla in ebraico, in un’altra ancora russo. Quando però afferma di essere araba, le risposte si fanno evasive per quanto diplomatiche. «Capisco che per te sia difficile. Sei araba? Non si sente! Oh finalmente una persona che parla russo. Ah non sei russa?».
2. Il muro del piscio (Cronaca di una sparizione, 1996)
Sette agenti della polizia israeliana scendono da un furgone cellulare in corsa. Sono armati di fucile automatico e il tutto fa pensare a un’imminente scena d’azione. Sparatoria contro terroristi? Guerriglia urbana? Niente di tutto ciò. Gli agenti cercavano solo un muro per urinare. In pochi fotogrammi, Suleiman riassume il ridicolo di forze di polizia il cui unico scopo sembra quello di marcare costantemente il territorio, come animali che lottano per la supremazia.
3. Nocciolo di albicocca (Intervento divino, 2002)
Es, il personaggio interpretato dal regista in ogni suo film, sta mangiando un’albicocca mentre è alla guida. Terminato il pasto, getta il nocciolo dal finestrino, colpendo un carro armato. Il cingolato deflagra in una spettacolare esplosione che lascia incolume il conducente. Questa scena si richiama ovviamente ai guerriglieri dell’intifada che sfidavano i carri armati col lancio di sassi, ma si rivolge anche a chi si ripara dietro la bandiera poco schierata della pace. La lotta parte anche dai noccioli di albicocca.
4. Checkpoint (Intervento divino, 2002)
Una donna (Manal Khader) scende dall’auto nei pressi di un checkpoint, uno dei tanti che Israele ha piazzato tra una città e l’altra per limitare la libera circolazione dei palestinesi. Sfoggia vistosi tacchi a spillo, un tailleur rosa e occhiali da sole. I soldati imbracciano i fucili e prendono la mira, pronti a fare fuoco contro la potenziale terrorista. Ma la donna avanza senza paura mentre i soldati non possono fare altro che ammirare la sua sicurezza e i suoi occhi, che mostra quasi in segno di sfida. La donna attraversa il checkpoint e la torretta d’avvistamento dei soldati crolla come un castello di carta. Tutto il senso della resistenza palestinese e dell’oppressione israeliana in una scena che, non a caso, è anche il poster del film.
5. Turista (Intervento divino, 2002)
Salve, mi scusi, mi sono persa. Vorrei andare alla Basilica del Santo Sepolcro, nella Città Vecchia.
– Ah, la chiesa… Sì, aspetti un attimo…
Questa conversazione tra una turista e un poliziotto riassume appieno il nonsense politico di Suleiman. Il poliziotto scende dal furgone cellulare, apre il portellone sul retro e fa uscire un detenuto palestinese ammanettato e bendato, il quale molto gentilmente e senza che la benda gli venga tolta fornisce le indicazioni richieste. La turista ringrazia e prosegue per la sua strada come se niente fosse. Questa scena, che illustra chiaramente i rapporti di forza e le differenze tra occupante e indigeno, ha un seguito nel film. La turista ritorna, chiede altre indicazioni al poliziotto ma questa volta il detenuto è scappato. La scena offre anche un’efficace riflessione sulla differenza tra conquista di un territorio e appartenenza a esso, e alla piattezza disimpegnata del turista occidentale.
6. “Sono pazzo perché ti amo” (Intervento divino, 2002)
In realtà questa è l’ultima scena di una serie di scene che hanno per protagonisti Es e la donna del checkpoint. I due sono amanti ma possono vedersi soltanto al checkpoint all’interno dell’automobile di uno dei due senza poter attraversare il posto di blocco. Tra i due la passione si consuma solo in sguardi languidi e con le rispettive mani che si prendono e si accarezzano sublimando l’eros. In quello che è il loro ultimo incontro, Es attacca al finestrino della macchina un biglietto con una dichiarazione d’amore (“Sono pazzo perché ti amo”), quindi gonfia un palloncino con la faccia di Arafat stampata sopra e lo libera. Il palloncino andrà poi a posarsi sulla Spianata delle Moschee. “Sono pazzo perché ti amo” è una dichiarazione d’amore appassionata e romantica, diretta anche alla donna.
7. Supereroina (Intervento divino, 2002)
La donna di Es è scomparsa e il regista suggerisce che sia stata reclutata da un gruppo estremista per compiere un attentato suicida. Nella mente di Es assistiamo a una fantasia che la vede protagonista di una mirabolante scena d’azione alla Matrix contro dei militari israeliani. Con tanto di kefiah, l’improvvisata supereroina disarma i militari, abbatte un elicottero e si protegge da una sventagliata di mitra con uno scudo a forma di Palestina. Tutta la Palestina. La Marvel riparta da qui.
8. Occupazione (Il tempo che ci rimane, 2009)
In questo film che attraversa la storia della Palestina dal 1948 al 2008, il regista ci mostra altri aspetti dell’occupazione israeliana. Prima assistiamo a una piccola intifada in strada. Nel caos una donna, chiaramente palestinese, col passeggino attraversa il fuoco incrociato. I militari le ordinano di andare a casa. La donna, stizzita, rispedisce l’ordine al mittente. Ma la vera sintesi della poetica di Suleiman è nello spezzone immediatamente successivo. Un uomo parla al telefono per strada mentre un carro armato a pochi metri da lui lo punta senza mai perderlo di vista. Si scoprirà poi trattarsi di un dj, la cui musica risuonerà in un locale notturno trascinando anche dei militari israeliani giunti lì per imporre il coprifuoco.
9. La banca di Francia (Il Paradiso probabilmente, 2019)
Es è a Parigi, in cerca di un suo spazio personale. Parigi è bellissima, ordinatissima e pulitissima, almeno in apparenza. Es non può però fare a meno di portare con sé il suo vissuto e il suo essere palestinese, e quindi vede situazioni che esulano dalla consueta bellezza della capitale francese. Netturbini che nascondono la spazzatura, clochard davanti a occhi indifferenti, file chilometriche per la mensa dei poveri ed elicotteri minacciosi che sembrano seguire il protagonista ovunque vada. Es arriva davanti alla Banca di Francia, un edificio come altri. Se non fosse che Es ha il “potere” per così dire di vedere oltre il semplice edificio. Ecco allora che si materializzano davanti alla banca dei carri armati, in fila e già pronti probabilmente per la prossima guerra.
10. Quella volta che Es parlò (Il Paradiso probabilmente, 2019)
Es è un personaggio muto. Nei suoi film non parla mai, né comunica in alcun modo. Es assiste in maniera non passiva ma di certo rassegnata agli eventi che lo circondano. Solo nel suo ultimo lungometraggio, Es proferisce alcune parole: «Nazareth» e «Sono palestinese». Le rivolge a un tassista newyorkese che gli chiede da dove egli venga. Le prime e al momento uniche parole di Es sono chiaramente un manifesto minimalista del suo rapporto con la madrepatria. Il tassista è stupefatto dall’avere un palestinese nella propria vettura, quasi fosse una specie rara in via d’estinzione. «“Karafat”? È un grande!», gli dice il tassista entusiasta, mentre Es ritorna al suo consueto mutismo, assistendo alla lenta ma progressiva scomparsa della memoria del suo popolo e della sua storia.
Ovviamente dieci scene non bastano a riassumere la complessità dei film di Suleiman, né della questione palestinese. Per questo oltre ai citati film, vi consigliamo anche la visione del suo lungometraggio più famoso, Cyber Palestine, del 2000. La natività ambientata all’inizio del XXI secolo tra checkpoint militari e telefoni cellulari. Con il suo cinema Suleiman si pone tra le più autorevoli “voci” non solo per una Palestina libera dall’oppressione, ma per un pensiero e una visione sul mondo liberi da ogni oppressione. Il suo linguaggio, a metà tra il documentaristico e un umorismo alla Wes Anderson ma molto più cupo, è un bene immateriale da conoscere, diffondere e preservare.
I film citati sono disponibili ai seguenti link
– Cronaca di una sparizione → Netflix (dopo aver impostato la piattaforma in lingua inglese)
– Intervento divino → Netflix (dopo aver impostato la piattaforma in lingua inglese) | DVD acquistabile coi sottotitoli in italiano qui
– Il tempo che ci rimane → RaiPlay
– Il Paradiso probabilmente → RaiPlay (disponibile sia in versione sottotitolata sia doppiata)
– Cyber Palestine → Ok.ru
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