100 anni de I dieci comandamenti – Archeologia dell’autodistruzione
Creare
«You have lost your mind. Stop filming and return to Los Angeles at once.»
-Da un telegramma di Adolph Zukor a Cecil B. DeMille, Maggio 1923
The Ten Commandments – I dieci comandamenti (1923) giunge ai nostri occhi invecchiati cent’anni come un oggetto alieno. Un reperto archeologico intriso di mistero, terribile exemplum di tecniche di produzione cinematografica per le quali abbiamo perso l’ambizione e la crudeltà.
The Iron Horse (dir. J. Ford, 1924), The Thief of Bagdad (dir. R. Walsh), Ben-Hur (dir. F. Niblo, 1925), fino alla deflagrante chiusura di decennio di Hell’s Angels (dir. H. Hughes, 1930): la Hollywood degli anni ‘20 è attraversata da una scia di Torri di Babele che testano – sfidandoli – i limiti dell’aurea potenza degli Studios, pervenendo a una magnitudine disumana. Sono anni in cui si concentra e manifesta una forza espressiva ruggente, che l’avvento del sonoro ha obliato con immeritata e irriconoscente violenza. Questa fulgente stagione del cinema hollywoodiano verrà sovrascritta dalla sequela di kolossal biblico-mitologici degli anni ‘50, quando la golden age si avvia al suo malinconico epilogo. Ricordiamo il Ben-Hur di Wyler (1959) a discapito del capolavoro di Niblo, e lo stesso destino è riservato alla versione de I dieci comandamenti del ‘23, oscurata dal rifacimento del ‘56 (diretto dallo stesso DeMille).
Per questi giganti caduti dovremmo tornare a provare terrore. Produrre e dirigere The Ten Commandments nel 1923 non equivale – semplicemente – a “fare un film”, infingendosi giocosamente nei costumi di qualcun altrə. Significa istituire una micro-civilità, dotata di gerarchie sociali, con la propria architettura e i suoi specifici sistemi di comunicazione.1 Costruire fuori da ogni scala, tracciando deliberatamente i propri stessi limiti. Emanando la propria legge.
A gigantic set had been erected as Ramses’ city by 500 carpenters and 600 painters and decorators. It included a 120 foot-tall temple, five enormous sphinxes, a 100-foot Great Gate, statues of the Pharaoh, and a 750-foot long city wall which deMille insisted on as he wouldn’t work with painted backgrounds. Also constructed was the ‘City of deMille,’ the 24 square-mile tent city which held the cast, extras and crew of 2,500, along with 3,000 animals.2
Il set – edificato tra le dune di Guadalupe-Nipomo, 170 miglia a nord di Los Angeles – raggiunge dimensioni abnormi, al punto da non poter essere propriamente smantellato e ritrasportato ad Angel Town. Ragion per cui DeMille decide di distruggerlo a colpi di dinamite e disperderlo tra la sabbia, affinché nessun epigonico predatore riutilizzi le sue scenografie in qualche pellicola esteticamente o moralmente indegna. Il deliberato inabissamento della Pharaoh City darà il via nei decenni a venire a una sorta di “archeological quest” volta al rinvenimento del tesoro sepolto, le cui disiecta membra sono ora esposte al Dunes Center (Guadalupe, California).3 The Ten Commandments produce anche la sua stessa memoria, attraverso reperti nella cui modernità è insufflata un’antichità ancestrale.
Distruggere
«You cannot break the Ten Commandments – They will break you.»
In questo movimento bifronte, volto da un lato all’erezione e dall’altro all’inabissamento, risiede la personalità di un film che distrugge quanto edifica, contraddice quanto afferma. Una vitalità prorompente in cui scorre una velleità suicida: una doppiezza che trova un primo evidente riscontro nella struttura del film, nettamente bipartito in «Prologue» e «Story».
Il prologo è grandiosità assoluta, dall’Esodo all’emanazione dei Comandamenti, impressi a schermo in una pirotecnica dimostrazione del potere divino. In questa sezione sono conservate le immagini più icastiche e memorabili del film, molte delle quali risplenderanno rivitalizzate dal remake del 1956. È per questa porzione della pellicola che le gigantesche Sfingi e i Cancelli di Ramses sono stati innalzati, che migliaia di maestranze e figuranti sono stati radunati.
La «Story» è invece ambientata in epoca moderna, in un tempo non semplicemente posteriore ma sostanzialmente altro. Una dissolvenza incrociata ci trasporta dai piedi del Monte Sinai in un umile salotto, dove ha inizio la vicenda dei fratelli John e Dan. Il primo devoto, timorato di Dio; il secondo miscredente, restio a vedere nel racconto biblico qualcosa di superiore a una fandonia utile ad aggiogare gli imbecilli. Saranno i protagonisti di una parabola moderna, dove il Decalogo – deriso e dimenticato come «old fashioned» – torna a far valere la sua fatale potenza normativa.
Le due sezioni del film non convivono affatto. Comunicano surrettiziamente, per via di una saldatura coatta. Il crossfading che lega le due sezioni maschera maldestramente uno squarcio tanto abrupto quanto irrimediabile. The Ten Commandments non è due film in uno, quanto due film uno contro l’altro – giustapposti. La prima parte istituisce quanto la seconda trasgressivamente rigetta. Se il Prologo s’impone con le sue immagini plastiche e imponenti, espressione dinamizzata di un racconto eterno e inamovibile, la seconda si muove nel territorio di un moderno dramma moralistico che non può che soccombere al confronto con ciò che lo precede, nell’impossibilità di eguagliarne la ricchezza visiva, il potenziale simbolico e spirituale.
Eppure, la «Story» sovrasta e sovrascrive il «Prologue», dimenticandosene. Al di là di un artificioso legame tematico, tra le sezioni del film non vi è omogeneità stilistica. Tantomeno è riscontrabile un sistema di rime interne, o lo sviluppo di un’isotopia che attraversi la doppia narrazione. Spaventato dal fallimento di Intolerance (dir. D. W. Griffith, 1916)4, DeMille evita la coordinazione tra le parti optando per la loro mutua esclusione. Le due storie lottano per imporsi alla memoria e all’attenzione spettatoriale – in uno scontro fratricida dall’inconfondibile sapore biblico.
DeMille sovrascrive il film su se stesso, inabissando il «Prologue» nelle sabbie della «Story», come se The Ten Commandments s’innalzasse al cielo unicamente per vedersi crollare su se stesso. In questa vocazione al dispendio di sé – allo spreco, all’agire irriflesso – risiede la potenza ultima di un cinema che non bada a spese, tempi di produzione, vite in gioco. Che si cura unicamente dell’incandescente purezza dello spettacolo, di un apparato in cui ogni morale o religione non è che accessorio – o, tutt’al più, espediente narrativo.
Note
1 «Communication was facilitated by an extensive army field telephone system, the largest of its kind used since the Great War.» (K. Westphal, ‘A Mental and Emotional Red Sea’: The Ten Commandments (1923))
2 https://www.film-foundation.org/ten-commandments-hfpa
3 Cfr. The Lost City of Cecil B. DeMille (dir. P. Brosnan, 2016); The Lost City of DeMille, «Grand Street» No. 49, Hollywood (Estate 1994), pp. 197-207
4 «He told four stories under the guise of one, and consequently all four failed. Because that is a formula that so far as I know has never been successful on the stage. One-act plays can be successful but not … the same theme running through four separate stories as one play.» (C. B. DeMille, The Autobiography of Cecil B. DeMille, Prentice-Hall, Inc, Englewood Cliffs 1959)
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