
C’è ancora domani – Perché tanto successo?
È uscito il 26 ottobre scorso e ha già superato i 13 milioni di euro al botteghino: C’è ancora domani, esordio alla regia di Paola Cortellesi, è il film italiano più visto dell’ultimo anno e uno dei maggiori incassi cinematografici in Italia dal 2021. Un successo che nelle ultime settimane è sulla bocca di tutti, chi lo ha visto sceglie addirittura di rivederlo e chi non lo ha visto sta per farlo. Ma a cosa è dovuto questo entusiasmo? Io stessa, quando un film divide poco l’opinione pubblica, tendo ad essere scettica. Non per presunzione o mancata fiducia nelle capacità critiche degli altri, ma perché di fatto in questi casi è difficile liberarsi dall’altezza delle aspettative che precedono la visione. C’è poi da dire che, per quanto riguarda C’è ancora domani, non è tanto la trama del film ad essere raccontata da chi lo ha visto e ne è rimasto colpito, sono piuttosto gli attori ad essere celebrati (non senza motivo). Quindi, in poche parole, andiamo al cinema non del tutto consapevoli della storia che stiamo per vedere, ma certi che «lei è fantastica», che «loro sullo schermo sono una coppia pazzesca» e così via. Insomma, il rischio di guardare con occhi di altri è molto alto.
Eppure ammetto che sia venuto alla fine naturale guardarlo con occhi miei, dimenticando le aspettative. Ho provato, anzi, a rispondere al perché C’è ancora domani stia avendo tanto successo.

Un film senza un’eroina
Per prima cosa, ho capito per quale ragione si racconta più degli attori che della trama. Anzi, un consiglio è proprio quello di vedere il film senza conoscere troppi dettagli della storia. C’è ancora domani va svelato poco a poco, perché è un racconto fatto con gusto, in cui nella linea della narrazione ogni cosa è al posto giusto e per il quale la regista ha una visione chiara su come accompagnare lo spettatore verso il finale. Si parla di emancipazione femminile e violenza domestica, e per quanto si tratti di argomenti di rilevante importanza, sappiamo che trattarli non è semplice. In parte perché spesso al femminismo è associata una strana idea di pesantezza, e in parte perché proprio per questo motivo è facile cadere nella trappola della semplificazione dei fatti. Diventa cioè più difficile costruire un racconto che allo spettatore risulti nuovo, o perlomeno non ridondante, e che non gli faccia perdere l’attenzione.
C’è ancora domani è sì semplice, nel senso che risulta facile seguire lo svolgimento dei fatti, ma la costruzione dei personaggi non lo rende banale. Non è usuale, ad esempio, che in un film dedicato alle donne, la protagonista non sia un’eroina che fa la Storia in nome delle generazioni future: l’elemento caratteristico di Delia è la rassegnazione, e, nel contesto del dopoguerra vissuto dalle famiglie umili, è perfettamente credibile. Per cui è bello lasciarsi sorprendere dal film mentre lo si guarda, non avere la pretesa di sapere già quello che ci vuole dire, ma conoscere giusto le cose fondamentali che ci hanno convinto ad andare al cinema: siamo nel 1946, siamo a Roma e in scena c’è una famiglia povera di cui fa parte Delia, la mamma.

Una storia raccontata con spontaneità
L’altro elemento che contribuisce al successo di C’è ancora domani è il fatto che Paola Cortellesi sceglie di adattare la forma al contenuto. In un mondo in cui la serialità costringe spesso a modificare una storia o a raccontarla secondo lo standard di altri media e altri episodi (lunghezza, genere, fotografia…), è entusiasmante vedere un contenuto che costruisce il proprio contenitore, e non viceversa. Per spiegare meglio, non c’è dubbio che C’è ancora domani sia un film drammatico, eppure dentro ci troviamo scene comiche e siparietti musicali. Tutto risulta realistico perché funzionale al racconto: le scene di danza che raccontano una routine imparata a memoria, come un ballo appunto, i dialoghi simpatici che servono a dare un ritmo ben preciso e che tra l’altro è tipico della cadenza romanesca. Per fare un altro esempio, sappiamo che il riferimento al neorealismo, con la scelta del bianco e nero del rapporto d’aspetto diverso dai 16:9, è esplicito, ma allo stesso tempo le scene sono accompagnate da una colonna sonora contemporanea. Cortellesi non cerca quindi coerenza nel rispetto del quadro storico, ma nella necessità di trattare di fatti e legami che si ripetono, che esistevano nel 1946 e che possono esistere ancora oggi. L’esigenza primaria è quindi raccontare una storia, e per farlo la regista usa tutti gli strumenti che le sembrano più adatti, che si tratti di un cambio di tono o del testo di una canzone.

A questo si aggiunge la riuscita di un cast composto da attori che – loro senza dubbio – hanno superato le aspettative. Oltre a Paola Cortellesi (Delia), vanno citati Valerio Mastandrea (Ivano), Giorgio Colangeli (Ottorino), Emanuela Fanelli (Marisa), Vinicio Marchioni (Nino), Francesco Centorame (Giulio) e Romana Maggiora Vergano che interpreta Marcella, la figlia di Delia, e ricrea in modo commovente lo spessore del legame invisibile con la madre, che noi spettatori percepiamo forte e chiaro.
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