
Can you Sea? – La scienza sul palco della Sharper Night
Il blu profondo del mare celebra l’ignoto e lo protegge, suggerendo appena il cosmo celato dietro l’abisso. Il mare non è solo profondo, è anche lontano, e nel suo orizzonte sfumato si cela il segreto di una vaga libertà. Gli esseri del mare, dai coralli ai cetacei, sono le apparizioni di un mondo che, solo rivelando la sua esistenza imperitura, mette in crisi l’agognato dominio dell’umano sul tutto, là dove nemmeno le tecnologie più avanzate consentono di accedere al suo mistero.
Fuor di facili lirismi, però, la coltre si dirada. Il mare, certo, non lo si afferra nemmeno con le sonde, con i rilievi, con i sonar. Ma grazie agli strumenti di cui la scienza contemporanea dispone appare più chiaro quanto l’assetto produttivo umano sia feroce in questo azzurro. Da qui l’esigenza, entro le proposte divulgative della Sharper Night, di parlare di mare con ‘Can You Sea?’. La proposta portata al Cinema Teatro Politeama di Pavia dall’A.S.D. Kirkes in collaborazione con l’Università di Pavia ha tentato di portare all’attenzione del pubblico le condizioni attuali del bioma marino.

In sala sopraggiunge un banco di piccoli pesci, giovani danzatrici che fanno dei loro corpi una totalità in movimento. Si ammira la vita di un corpo collettivo subacqueo, mentre sullo schermo in fondo al palco corrono le immagini di un cetaceo spiaggiato, esanime nel limite tra due mondi; le onde lo spingono verso quello che – tra i due – gli appartiene meno, la terraferma. Il dialogo tra corpi e immagini si interrompe e sul palco appare per la prima volta un leggìo con un lettore: è la telegrafica notizia di un cetaceo spiaggiato, con in pancia un feto e un tubo elettrico.
I corpi sono ora costretti dentro buste di plastica, e ciò basta a riconoscere che la danza armonica del banco di pesci non è più possibile e non rimane che origliare il tetro crepitìo della plastica entro cui essi si dimenano, impegnati a eccedere le proprie capacità per poter muoversi e a intrappolare con la forza l’unico corpo ancora libero dalla costrizione. Il dimenarsi di quest’ultimo è effimero, poiché in poco tempo è già prigioniero della rete da pesca che si staglia, alta e enorme, al centro del palco.
È nuovamente il momento della lettura: si apprende che Roger Pain negli anni ‘70 registrò per la prima volta i canti delle megattere. Vere e proprie serenate, armonie abissali che imperversano nelle profondità oceaniche e permettono a questi mammiferi di coordinare la caccia, di richiamare l’amore. A conclusione di questo secondo monologo etologico si raggiunge forse il momento più alto e interessante dello spettacolo: la danza riprende, stavolta avvalendosi di equilibrio e forza sui cerchi e le funi sospese in aria. La musica che spinge al movimento non è umana e il suo veicolo non è l’aria: è cetacea e il suo veicolo è l’acqua, come in una collaborazione artistica inaspettata.

L’intuizione originale che regge lo spettacolo si traduce in una struttura che prevede l’alternanza, a tratti faticosa, di momenti di danza e lettura, con il rischio di frammentare pedantemente la fluidità delle evocazioni sceniche. Il monologo sui danni della pesca intensiva di merluzzi in Nord America è ben restituito da una nuova danza tragica fatta di movimenti spigolosi e precisi, faticosi e affaticati; i piedi pestano sul palco e sullo schermo una rete pesca a strascico decine di migliaia di merluzzi. Seguono un monologo sulla falsa e presunta pericolosità dello squalo e un altro sulla proliferazione di alghe tossiche nei fondali a causa dei fertilizzanti, rispettivamente espresse da danze di alghe e danze sui cerchi.
Rispetto a questa alternanza prevedibile tra danza e testo, si inserisce un inedito dialogo tra le immagini sullo schermo e i corpi sul palco: l’enorme nave proiettata sembra invadere lo spazio scenico e rende piccolo il corpo danzante, piccolo quanto un microorganismo marino incastrato nella chiglia del mostro di acciaio che lungo il viaggio contamina con microorganismi alieni ogni porto in cui si àncora. La fune dell’àncora, su cui la danzatrice-microorganismo viaggia e si arrampica, è la stessa che grazie al gioco delle forme diventa rapidamente la fune della morte, la fune con cui la biodiversità marina è strangolata.
L’esposizione dei dati scientifici relativi al mare apre alla speranza ottimistica di affidare alla scienza l’enorme responsabilità di formare nuove sensibilità, per “vivere in armonia, persone e natura”. Le immagini delle cascate, dei sfavillanti fondali marini, fanno da sfondo ai movimenti nuovamente armonici del corpo di danza, e annunciano la promessa appassionata di una scienza virtuosa rispetto alle sfide dell’antropocene.

Si ha però la sensazione di un conflitto irrisolto. I momenti in cui il palco è invaso dalla potenza evocatrice dei corpi in movimento sono i più efficaci eppure continuamente soffocati dalle letture: è come se l’intero spettacolo fosse viziato dalla inconfessata sfiducia nei confronti delle possibilità evocative dell’agire dei corpi in scena. Tanto più se le favolose immagini create dal corpo di danza sono continuamente relegate al ruolo di complemento alla prosa divulgativa. D’altra parte l’entusiasmo rampante – forse dovuto alla possibilità che offre il palco di portare istanze urgenti a un pubblico eterogeneo – può malamente far protendere uno spettacolo verso le modalità di un convegno. Il risultato, come intuiva Eugenio Barba, è che “quando il teatro si sforza di divenire ciò che vuol suggerire, allora perde il suo effetto”.
La deriva è aggirata dalla maestria del corpo di danza e in noi rimane qualche informazione in più in merito al mare, laddove a ogni curiosità soddisfatta ha corrisposto una cascata di parole a smorzare lo scalpiccio simbolico. Si ha il presentimento che sul palco si siano svolti i conflitti tra corpo e parola, tra i momenti di sano volo suggestivo e di ingenuo sforzo argomentativo, tale per cui abbiamo ora gli elementi sia per pensare con maggior consapevolezza al mare, sia per riflettere su come curare il connubio scienza-teatro, evitando che dei due soggetti si confondano esigenze e peculiarità e dando ampio respiro alle sane prerogative del rapporto.
Dal 2015 Birdmen Magazine raccoglie le voci di cento giovani da tutta Italia: una rivista indipendente no profit – testata giornalistica registrata – votata al cinema, alle serie e al teatro (e a tutte le declinazioni dell’audiovisivo). Oltre alle edizioni cartacee annuali, cura progetti e collaborazioni con festival e istituzioni. Birdmen Magazine ha una redazione diffusa: le sedi principali sono a Pavia e Bologna
Aiutaci a sostenere il progetto e ottieni i contenuti Birdmen Premium. Associati a Birdmen Magazine – APS, l‘associazione della rivista