
Dalla violenza al dialogo – Le lezioni di American History X
«I’m afraid we’re going to be writing about American History X forever»
(Justin Kirklan)
Los Angeles, anni Novanta. Una famiglia bianca americana, alla fine di un pranzo qualunque, discute delle rivolte degli afroamericani che dopo il pestaggio di Rodeny King infiammano la cronaca del tempo. La discussione si polarizza. Da un lato il nuovo compagno di origini ebree della madre, Murray, appoggia la causa dei rivoltosi. Seduto a capotavola, dall’altro lato, vi è il figlio maggiore: Derek Vinyard (Edward Norton).
Il ragazzo irrompe nella conversazione screditando con facilità le opinioni di Murray, incalzandolo con statistiche sul tasso di criminalità degli afroamericani e insistendo sul fatto che chi infrange la legge non può essere giustificato dalle condizioni sociali in cui è cresciuto. Le argomentazioni di Derek frantumano qualsiasi obiezione. Gli altri commensali abbassano lo sguardo. Insofferente, sua sorella Davina lo interrompe esprimendo il suo dissenso. Derek perde il controllo: la afferra per i capelli e con violenza le infila una fetta di arrosto in bocca intimandole di stare zitta. La sequenza di violenza si conclude su di un simbolo: Derek si strappa di dosso la camicia rivelando a Murray la svastica tatuata sul petto.

Leggendo la descrizione di questa scena di American History X, si intuiscono facilmente le cause per cui David McKenna incontrò così tante difficoltà nel trovare un produttore per la sua sceneggiatura. Il film infatti si muove tra le ombre del passato neonazista di Derek e il suo presente, che lo vede profondamente cambiato. Ritornato alla libertà dopo essere stato imprigionato per l’omicidio brutale di due afroamericani, il ragazzo decide di voltare pagina. Il suo obiettivo principale diventa impedire che suo fratello minore, Danny, segua i suoi passi all’interno di una gang punk-neonazista. In questa missione viene aiutato dal preside della scuola che assegna a Danny un compito per il corso di American History X: scrivere un tema storico sugli eventi che hanno portato all’incarcerazione del fratello.
Seguendo le parole di questo saggio, il film diventa una descrizione del sistema dell’odio sordo e aggressivo di cui tutti i personaggi del film sono vittime. I colori di pelle delle comunità etniche di Los Angeles si separano nel bianco e nero quasi tematico dei flashback. Ogni fazione prende possesso di un territorio: ai neonazisti le strade di Venice Beach e agli afroamericani la prigione. Allontanata cromaticamente e spazialmente ogni possibilità di dialogo, i due gruppi si barricano in un fanatismo violento in cui i disagi dei singoli trovano una risposta comune nella subcultura razzista.

I germi dell’odio aggressivo che muovono i giovani delle gang sono da ricercare tanto in traumi personali quanto nella violenza di una società iperconservatrice il cui scopo è mantenere uno status quo che, a ben vedere, non è mai esistito. Risulta chiaro in un flashback dove il padre di Derek si oppone all’introduzione di libri con protagonisti afroamericani nel programma educativo americano senza averne mai letto uno. Dopo la morte improvvisa del genitore, il ragazzo seguirà l’esempio paterno trovando una cassa di risonanza per il suo dolore e la sua paura nel timore yankee della sostituzione etnica.
Ma American History X non si limita ad analizzare i microbi del sistema dell’odio che infetta la società americana. Il film va alla ricerca di una cura che, in un mondo spaccato in due compartimenti a tenuta stagna, viene individuata nel dialogo. Non a caso, ciò che permette ai due fratelli di cambiare è la parola. Il riscatto di Danny inizia dal suo compito, ovvero dalla scrittura come momento di ricerca razionale per conoscere il mondo e sé stesso. Per Derek, la rivoluzione inizia nel territorio nemico: la prigione. È qui che, allontanatosi dal megafono assordante della gang neonazista, il ragazzo inizia ad ascoltare qualcosa di diverso: i discorsi dell’afroamericano che lavora con lui. Lo scambio rende il nemico più umano fino a quando Derek arriva a specchiarsi nell’odio e nelle sofferenze dell’altro.

Venticinque anni fa, American History X ci metteva in guardia sulla pericolosità del sistema di segregazione e odio che alimentava il conflitto tra le gang afroamericane e i suprematisti bianchi di Los Angeles. Per evitare che la pressione sociale crescesse fino all’esplosione, il film proponeva di costruire uno sfiatatoio attraverso diverse fasi: l’incontro, l’ascolto e infine il dialogo. Ma affinché questo processo sia efficace, c’è bisogno di tempo. Lo scambio troppo acerbo tra due parti ha come esito la violenza di Derek che, pur di prevalere, tappa con una fetta di arrosto la bocca della sorella, rischiando di soffocarla. Solo dopo molti anni riuscirà a rimettere assieme i cocci del rapporto con la sua famiglia, frantumato da quel gesto impulsivo.
Che si tratti di guerre tra gang o di liti domestiche, il racconto del percorso di Derek rappresenta la ricerca di una via da percorrere per tentare di riparare ciò che la violenza ha distrutto. Ma guardando alla brutalità delle immagini dei conflitti di oggi, sembra che la lezione del corso di American History X sia rimasta inascoltata o, come per Danny, sia arrivata troppo tardi. Mettere in pratica il metodo teorizzato nel film per fermare la macchina della violenza sembrerebbe, con il passare degli anni, un’ipotesi sempre più remota. Noi saremo qui a ricordarne l’esistenza, anche se temo che dovremo scrivere per sempre di American History X.
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