
Emily – Il tormento e l’amore spietato di là dal genio letterario
La vita di Emily Brontë appartiene a quel ricettacolo di complesse e idiosincratiche biografie letterarie che da sempre ispira la creazione per immagini. Come del resto accade per tutte le vite dei giganti della letteratura mondiale. Attraversata a più riprese, di Emily Brontë è stato sempre messo in scena l’unico romanzo, Cime tempestose, dall’adattamento del 32 per mano di William Wyler all’ultimo tentativo da parte di Andrea Arnold nel 2011, passando per le trasposizioni RAI e innumerevoli altre versioni (tra cui ricordiamo almeno quella assai sperimentale di Buñuel, Abismos de pasión, del 54). Con il suo esordio alla regia, Emily, Frances O’Connor si concentra sugli ultimi anni della vita della scrittrice britannica, dedicati alla partenza da casa nell’età adulta e al fallito inserimento nel mondo del lavoro come insegnante, quindi al suo ritorno tra le confortanti mura domestiche e alle tribolate vicende che l’hanno condotta alla stesura di Cime tempestose.

Già a partire dalla scelta del titolo – che sottrae il cognome al nome, come tanto cinema coevo per dire della dimensione terrena, privata di un personaggio –, Emily raccoglie la sfida lavorando al meglio quando tenta l’affondo nell’imperscrutabile oltre il dato biografico, in una ricerca creativa sottotraccia, o che scriva sopra i pochi elementi noti, li copra, esplorando il carattere difficile dell’autrice con piglio immaginifico. E tuttavia la maniera diffusa con cui O’Connor dirige il proprio film è di stampo imitativo (ed è naturalmente giustificato). La brughiera anglosassone, luogo di ambientazione delle vicende del romanzo e della vita della Brontë, riflette quella ruvidezza e progressivo irrigidimento sociale che hanno condotto alla scrittura del carattere misantropico di Heathcliff e della sua relazione autodistruttiva con Catherine. E la stessa misantropia è destinata a un certo punto ad avvolgere Emily Brontë (interpretata da una Emma Mackey iper calzante). Così nelle immagini di O’Connor la dimensione letteraria fagocita quella reale della scrittrice. Di conseguenza, come accennavamo sopra, la Emily di O’Connor è un personaggio per lunghi tratti imitato e desunto dal romanzo.

Emily riavvolge il nastro in un lungo flashback che si chiude circolarmente (e assai tradizionalmente) con la protagonista in punto di morte, affiancata dalla sorella maggiore Charlotte (autrice di Jane Eyre) che la incalza gelosamente sul perché della brutalità e della stoltezza del suo romanzo. Nel dettare l’esplorazione del passato prossimo di Emily giustificandolo mediante i quesiti di Charlotte, O’Connor individua la genesi del parto letterario in una condizione di grande tormento che avrebbe prosciugato la spinta vitalistica di Emily, e in ultimo permettendole però di dar forma al proprio genio letterario con sguardo epifanico nella scrittura di Cime tempestose. Invero, sarebbe stato forse più interessante (e naturalmente complesso) raccontare la nascita del romanzo in maniera meno fulminea, illuminante, divina, e trasmetterla invece come una specie di terreno dissidio, di lavorio mortale, sfocato, raffreddato e poi rutilante, e poi chissà ancora.

Di là da questa scelta, il film torna sempre a un lavoro di mescidazione tra letteratura e vita. Della vita sentimentale di Emily non conosciamo propriamente nulla, men che meno sappiamo di un rapporto con William Weightman, il nuovo curato della sua comunità. Tra l’esasperata rinuncia a Dio di lei e la fede apparentemente incrollabile di lui, il rapporto vien fuori come la più tradizionale delle attrazioni fatali tra opposti, stolidamente asserragliati nelle proprie posizioni ideologiche e poi in preda a una trascinante e reciproca seduzione da liberare col sesso in una cascina remota nell’oscurità notturna della brughiera. L’amore è ruvido e spietato perché quello di Heathcliff e Catherine lo è per primo. Se O’Connor dirige questa passione autodistruttiva affidandosi per intero alla misura letteraria, si concede quantomeno di apportare qua e là farciture che fanno capo alla propria immaginazione.

Come sottolineavamo in apertura, il meglio sta proprio qui. Il punto fondamentale per cui il film avrebbe potuto di molto guadagnare in spessore è in tal senso in un coraggio e una radicalità appena accennati, complice con tutta probabilità la volontà di O’Connor di dosare l’estro, mantenere una rotta di medietà in risposta all’inesperienza registica. Perché proprio nella liberazione del tocco di O’Connor sulle immagini si schiudono i momenti più belli, i lampi più magici, le vertigini da grande romanzo personale. Il picco che offre la meraviglia maggiore è nella sequenza notturna a casa dei Brontë, quando, liberati dalla presenza invadente del padre, i fratelli Emily, Charlotte, Branwell e Anne inscenano uno spettacolino privato per il curato William. Un vecchio gioco che facevano da bambini: indossare a turno un’antica maschera di cera e interpretare qualcun altro. È la stramberia di Emily, la sua sensibilità bizzarra e calibrata sugli eccessi a produrre sempre lo scarto maggiore. E qui finisce per farla sparire dietro la maschera, sostituita dal fantasma della madre defunta. Rivolge parole dolci ai figli in lacrime, accoglie le loro preghiere, scompare di colpo col tonfo cieco di una tempesta che spalanca le finestre e porta via la luce dalle candele.

L’atmosfera è da romanticismo vittoriano, rappresa in uno spazio stretto, luogo in cui i fantasmi parlano d’amore, la morte è più reale della vita, e la musica in crescendo di Abel Korzeniowski tiene tutti in ostaggio emotivo, in un dramma palpabile e famigliare, vivo. Quando O’Connor inventa, scrive (sua anche la sceneggiatura) del rapporto pruriginoso con Charlotte e dell’amore quasi incestuoso tra Emily e Branwell, fuochi fatui, anime tormentate e imprendibili, la vita zampilla fuori dalle immagini e arriva dritta al cuore. «C’è solo una felicità in questa vita, amare ed essere amati», dice Bramwell straziato, malato. L’amore nell’arte non può venire dall’imitazione, ma solo come movimento creativo che dal fondo rompe verso l’esterno. E quando riesce a farlo, Emily sa essere in questo un esempio invidiabile.
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