
Zio Vanja – Un’indagine sulla ferocia di Simona Gonella
Alla fine il pubblico è soddisfatto. E non è solo l’adrenalina per il colpo di pistola esploso a pochi minuti dall’epilogo: Zio Vanja di Simona Gonella, in scena al Teatro Fabbricone di Prato, ha messo d’accordo tutti. Perché non è soltanto, come suggerisce il sottotitolo, un’indagine sulla ferocia umana, ma un racconto complesso e mai pretenzioso in cui si mescolano sarcasmo e compassione, disincanto e bisogno, sempre vivo, di testimoniare e dissacrare le brutture delle relazioni umane.
Un recinto ideale, claustrofobico, costringe tutti i personaggi in scena, dall’inizio alla fine: ciascuno è inchiodato dalla propria infelicità, nudo di fronte agli altri; impossibile fuggire o prendersi una pausa dallo sguardo altrui. Un “tappeto” quadrangolare, rosso acceso, delimita lo spazio in cui i protagonisti dialogano – o forse fingono di farlo –, ciascuno ripiegato nella propria condizione di isolamento esistenziale. Hanno fretta di raccontarsi, tutti, di parlare di sé cercando disperatamente qualcuno che ascolti il loro turbamento, il rumore del loro vuoto interiore. Ogni personaggio usa lo sguardo dell’altro per contemplare e insieme disprezzare la propria immagine, in un’ossessione narcisistica che rispecchia una consuetudine del nostro tempo.

I travagli dei protagonisti del testo di Cechov sono comuni alla borghesia contemporanea: la solitudine, il rimpianto, l’impossibilità di trovare un senso all’esistenza, l’incapacità di alimentare qualcosa che non sia il proprio ego. Alle spalle un passato sprecato, davanti un futuro che si preannuncia arido come il presente.
C’è Vanja (Woody Neri), bretelle e infradito, che giudica e invidia gli altri, ma è crudele soprattutto con sé stesso; che ama Elena senza essere ricambiato, o almeno crede di amarla; che a tratti la venera, ma in fondo nutre astio e un po’ di disprezzo per lei, che potrebbe salvarlo dall’abbrutimento e invece lo rifiuta.
C’è Elena (Stefanie Bruckner), pigra e infelice ma bellissima, che con Elena di Troia condivide il nome e un destino inclemente: quello di chi suscita il desiderio degli uomini e per questo è punita e mai compresa. Di chi porta in fronte l’etichetta della generatrice di discordia, di chi parla, a volte grida, eppure non è mai ascoltata: solo guardata. E odiata.

C’è Sonja (la bravissima Stefania Medri), il destino complicato di donna non bella che fa da contraltare all’altra protagonista femminile; che raccoglie un diverso tipo di rifiuto ma anch’ella è sola col proprio dolore.
E poi il dottore (Marco Cacciola), egocentrico e giudicante, irrequieto e un po’ inconcludente, che, come Elena, vive il tormento di chi sa relazionarsi agli altri solo attraverso la seduzione. Infine il professore, anziano e per nulla saggio, sofferente ma non per questo capace di raccogliere la compassione di qualcuno.
Cinque solitudini intorno a cui orbitano la vecchia balia (Anna Coppola), ora materna ora sardonica, che nello spettacolo è anche didascalia vivente e parlante, con uno sguardo sempre lucido che dona ritmo all’azione; e poi un personaggio outsider che, senza parlare, ci racconta come la malattia e la mancanza – in tutte le loro forme – siano spesso le uniche possibili fonti di saggezza. Le uniche strade verso la salvezza.

Sulla scena aleggia un altro protagonista, impalpabile quanto minaccioso: il giudizio spietato che tutti esercitano su tutti, indistintamente, generando un circolo vizioso che trasforma i personaggi da carnefici in vittime e viceversa, senza soluzione di continuità. Affaticati da un’incurabile sordità interiore, i protagonisti sono rumorosi e ingombranti e, al contempo, sembrano desiderare solo quella quite life che è il titolo di uno dei brani dello spettacolo.
Completa il racconto sulla ferocia umana una scenografia scarna e asfissiante, pochi oggetti e colori accesi, che contiene e opprime i personaggi, facendo eco a una repressione costante di impulsi e desideri intangibili, e che nessuno riesce a liberare o a realizzare. E ancora l’uso di suoni ripresi dalla vita reale – ad esempio, il cigolio di un’altalena che ricorre in apertura –, tra i pochi elementi realistici in un quadro fortemente stilizzato.

Se saper vivere è un’arte da imparare, i personaggi di Zio Vanja non sono riusciti a coglierne i più reconditi segreti. La ferocia del sottotitolo non è solo nello sguardo sciatto e severo che ciascuno ha per gli altri, ma nell’intransigenza che ciascuno ha con sé stesso. Nessuno sembra aver compreso che la loro casa/gabbia è solo una piccolissima porzione dell’infinito che gli si muove intorno, poiché tutto ciò che è al di là di quel microcosmo asfittico non è mai percepito dai personaggi. Per questo, come ricorderà Elena a Vanja, tutti si permettono di distruggere ogni cosa, “foreste, animali, essere umani, e fra poco sulla terrà non rimarrà niente”, schizzando un ritratto verosimile di una contemporaneità amara e ineluttabile, di quel dominio dell’uomo sulla natura che ci vede involverci mentre ci illudiamo di progredire.
Ma tutto questo, i protagonisti di Zio Vanja non lo sanno: quel recinto rosso acceso, in cui tutti sono sempre “in scena”, per loro occupa l’intero spazio conoscibile. La loro vita sono loro stessi, ed è per questo che tutti sembrano essere condannati all’infelicità. Senza alcuna possibilità di appello.
ZIO VANJA – UN’INDAGINE SULLA FEROCIA
di Anton Cechov
regia Simona Gonella
con (in ordine alfabetico) Stefano Braschi, Stefanie Bruckner, Marco Cacciola, Anna Coppola, Stefania Medri, Woody Neri, Donato Paternoster
scene Federico Biancalani
disegno luci Rossano Siragusano
costumi Annamaria Gallo
ambienti sonori Donato Paternoster
produzione Elsinor Centro di Produzione Teatrale, Teatro Metastasio di Prato
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