
Scegli la vita, la morte o l’amore? – Acqua Viva Teatro in ‘Majakovskij Karaoke’
Le vie per l’immortalità non sono infinite, sono anzi finite e profondamente terrestri: passano per la carne, per l’umano, per la Terra. Tutto questo era ben presente nella mente di Majakovskij quando scriveva nel Mistero buffo che «Qui in terra vogliamo vivere, non più in alto né più in basso di tutti questi pini, case, cavalli ed erbe». Così, se un’immortalità è propria della mitologia di Majakovskij, si può dire che egli esista ancora laddove sono scandite le sue parole che sonoramente occupano gli spazi: solo là il reincarnarsi che elude la morte nello spazio dei vivi può essere compreso.
In Majakovskij Karaoke, esordio della compagnia Acqua Viva Teatro andato in scena al Teatro a l’Avogaria di Venezia il 29 e il 30 aprile, la reincarnazione si è concretizzata nella scena. Majakovskij non è stato evocato, non recitato, né ridotto alla parola scritta. Se per Majakovskij la poesia è la dimensione totalizzante dell’essere qui l’essere è la scena, dunque la scena è poesia. Nei gesti e nelle parole declamate, nei suoni e nelle luci insinuate, nella danza e nella cupa scenografia all’improvviso sgargiante di colori e musiche c’è Majakovskij.

La scena è illuminata fiocamente quando si insinua un corpo animalesco di donna in camicia, tra spasmi e tentazioni tattili che trascinano lo sguardo per il perimetro della scena, dichiarandolo. Le mani sfiorano i muri e poi vi spingono contro. Lo spazio, spasmodicamente definito nei suoi limiti, è ancora vuoto e tutto deve ancora fiorire. Il corpo, una volta compreso lo spazio, si fa definitivamente umano e si ricompone. La parola emerge dal corpo della donna che, raggiunto il proscenio, chiede: «Che cos’è la primavera?».
Nell’atto successivo due uomini e un’operatrice di scena occupano lo spazio con disinvoltura. Forse ne hanno familiarità perché è già stato sperimentato dalla donna, elemento scenico tanto quanto loro. Così la scena in poco tempo mostra due leggii e due sedie, una scrivania e una sedia, un tavolo di legno e una sedia, un attaccapanni. Sembra sia stato allestito un soggiorno decadente, dove due amici leggono, scherzano e declamano poesie, connotando per la prima volta il tempo dissacratorio della quotidianità. Ogni azione è azione opportuna rispetto allo scopo di dichiarare la propria presenza. Ogni parola un annuncio della propria esistenza. Una danza egocentrica mossa dalla volontà di dominare il corpo, il tempo e lo spazio. Anche quando le poesie sono declamate in combutta dai due attori in scena, ogni parola pronunciata è un allarme che richiama l’attenzione prima sull’uno e poi sull’altro. È il tempo della poesia gridata e ostentata, della poesia che si spiega solo nella lucida volontà di non perire al consueto. Per questo non possono bastare le umane corde vocali: è necessario ricorrere alla tecnologia, ai microfoni e ai megafoni, al prodigio umano dell’amplificazione, per essere sicuri che la vita possa essere adeguatamente annunciata per mezzo della phoné.

Questo tempo dominato dall’ansia di esistere, che si può definire una volta per tutte il tempo razionale o tempo disciplinato, è messo in discussione da una meteora capace di scombussolare il principio di razionalità che lo domina. Questa meteora è una donna, che con la sua sola presenza mette in crisi le certezze relazionali instaurate precedentemente dai due attori, che si obliano nella scena. Ecco che il tempo disciplinato non solo è stato sospeso, ma è cambiato di segno; è bastata una donna a far ruzzolare il principio di razionalità nell’irrazionale. In questo nuovo tempo irrazionale la donna amata catalizza le attenzioni su sé e annulla ogni termine precedentemente istituito; ma è necessario ordinare anche questo nuovo ordine. Qual è dunque la questione? Razionalizzare l’irrazionale e cioè spiegare l’amore con l’unico strumento capace di farlo: la poesia. Il tentativo di razionalizzare l’amore per via della poesia è restituito al massimo grado nei versi di Ascoltate! : «Ma se si accendono le stelle / Vuol dire che qualcuno ne ha bisogno?».

Fuori della dicotomia razionale-irrazionale, che pure è fondativa della poetica di Majakovskij, lo spettacolo gode di intermezzi in cui la poesia si ricongiunge con il suo senso etimologico di poiesis. L’assenza dell’altisonante declamazione dei due attori lascia lo spazio a una poesia senza parola. Così la bella danza di un’ombra aggraziata si posa sulla melodia di un nostalgico carillon, disegnandosi sul fondale sapientemente illuminato. Una donna nuda nell’intimità del suo privato si accorge che il pubblico la guarda; strappa dall’attaccapanni uno straccio rosso e si copre, salvo poi svestirsi in altri termini, perché quello straccio è già diventato bandiera rossa e lei scultura imperturbabile che annuncia, forse, la rivoluzione. È poesia che si basta nel suo svolgersi, che si declama per gesti e per chiaroscuri e si dice nel non detto.
E se ancora non si è strappata la gioia ai giorni futuri non resta che un’immortalità sordida e castrata. Un’immortalità che si estrinseca nella scena, sgomberata dalla stessa operatrice che l’ha per prima riempita di oggetti. L’ultimo concerto è stato dichiarato, la morte annunciata. Un accenno di vita permane nella sporcizia del palco usato e consunto, testimone dell’immortalità di uno spazio solo apparentemente rimasto vuoto.
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