
Nei giardini della mente – Intervista a Matteo Balsamo e Paolo Fosso
Presentato a Milano all’interno del festival Visioni dal Mondo, Nei giardini della mente (leggi qui la nostra recensione) indaga la malattia mentale e lo stigma che ancora oggi si porta appresso, costruendo una narrazione polifonica attraverso le interviste di psichiatri, pazienti, familiari e fotoreporter in dialogo tra di loro e con le immagini e le testimonianze d’archivio. Abbiamo incontrato Matteo Balsamo, regista del film, e Paolo Fosso, produttore esecutivo e compositore musicale, per scoprire di più sul progetto e sulla sua lavorazione.
Il film è stato attualmente selezionato in 14 festival internazionali e prossimamente sarà al Matera Film Festival e al Warsaw International FilmFest.
Come è nato il progetto? Perché avete deciso di parlare di salute e malattia mentale?
MB: Il progetto è nato circa un anno e mezzo fa, ho contattato Paolo dicendogli che avevo in mente di fare un documentario sullo stigma della malattia mentale e da lì abbiamo cominciato a fare delle ricerche e a contattare un po’ di persone che lavoravano nell’ambito della malattia mentale. Poi abbiamo conosciuto l’associazione Oltre il giardino, a Como, che ci è stata presentata da un fotoreporter che ha partecipato al film, Livio Senigalliesi.
PF: Livio era già anche in In prima linea, il precedente film.
MB: Da qui quindi è partito il progetto, poi il lavoro mastodontico che ha fatto Paolo è stato contattare tutte le istituzioni, come la Film Commission, la Cineteca di Bologna, Aamod [Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico – ndr] di Roma, l’Università di Siena, il Comune di Colorno.
PF: Anche Doc/it [Associazione Documentaristi Italiani – ndr] per i documentari; è stato un lavoro di coordinamento insomma.
MB: Abbiamo inserito nel progetto anche del materiale d’archivio, per noi era molto importante capire come, al tempo di Basaglia, fossero trattate queste persone rinchiuse in questi posti che io chiamo “un po’ maledetti” e, partendo da Basaglia, arrivare ai giorni nostri con Oltre il giardino e nel frattempo raccontare uno spaccato di ospedali al di fuori dell’Italia, come ad esempio la Grecia, il Mozambico, la Somalia. Abbiamo voluto far capire effettivamente lo stigma sulla malattia mentale, come vengono considerate [le persone affette da disturbi mentali – ndr] che problematiche hanno, che barriere la società mette loro.
All’interno del film l’associazione Oltre il giardino occupa una posizione centrale. Come siete venuti in contatto con questa realtà e che tipo di rapporto è nato con le persone che la frequentano?
MB: Il rapporto con l’associazione Oltre il giardino è nato grazie all’incontro con Gin Angri, uno dei fondatori.
PF: Eravamo arrivati a Gin Angri per le sue qualità di testimone fotografico, perché lui nasce come fotoreporter effettivamente. Lui ci ha presentato l’associazione che aveva co-fondato, noi amiamo dire sulle sponde del lago di Como, in realtà si trova nell’Ospedale San Martino, ex manicomio in tutto e per tutto. Oggi è un centro polifunzionale per la salute. Loro si incontrano, chiacchierano in modo molto informale e quando li abbiamo incontrati per la prima volta, sempre appunto attraverso Gin, si è subito creata sintonia, perché noi ci siamo approcciati in maniera informale, non davvero istituzionale. Penso che il merito sia stato di Matteo, che è sempre molto cordiale nei rapporti e quindi ha fatto un po’ da animatore della festa. Ha funzionato proprio perché si è creata una sintonia immediata e si sono tutti aperti. È stato bello sentire le testimonianze di ognuno di loro, che si alzava in piedi e si raccontava, qualcuno leggeva i propri articoli, perché loro scrivono questo periodico, anche se dicono non essere un periodico, perché chiaramente lo scrivono quando riescono, hanno tempo e voglia. Sono articoli veramente interessanti, lo vedi che nel caos della loro mente ad un certo punto ci sono dei momenti di lucidità incredibili e ti colpiscono anche emozionalmente, ti arrivano all’anima. Pensi: «Hanno ragione», sono riflessioni profonde che ti fanno capire che non c’è poi così tanta differenza tra noi e loro. Ed è questo che ha voluto dire Matteo, si rimarca molto questo concetto lungo tutto il documentario.
MB: La prima volta siamo arrivati io, Paolo e Gianluca Sacchi, che è il direttore della fotografia. Ci siamo presentati e poi io chiedevo se ognuno di loro poteva raccontarmi la propria storia e mi sono presentato come regista, ho detto: «Ho in mente di fare un documentario, vorrei sentire le vostre storie». Quindi ognuno di loro raccontava la propria storia. Siamo andati a tanti incontri prima di arrivare effettivamente a fare l’intervista. Abbiamo dovuto creare un senso di amicizia e collaborazione.
Nel documentario che abbiamo presentato c’erano altre persone di Oltre il giardino che volevano fare un’intervista, all’inizio erano molto convinti, poi, ad un certo punto, per una problematica con un familiare che non voleva che il proprio parente uscisse in un documentario, si sono tirati indietro. Noi abbiamo rispettato questa decisione, per noi era molto importante rispettare la loro volontà.
PF: Non è detto che un’esperienza di testimonianza in un documentario come questo possa essere un’esperienza positiva per loro, dipende da caso a caso. Non è stato semplicissimo individuare i profili che potevano partecipare al documentario e quelli che no. Ci sono delle persone che si sono tirate indietro all’ultimo momento. Capisco che non sia una cosa da tutti raccontarsi in maniera così intima, alla fine Matteo li metteva a nudo, non tutti potevano fare un’esperienza del genere.
MB: In effetti io non mandavo prima le domande, arrivavo lì, iniziavo a prendere confidenza e anche loro con la telecamera. Dopo la prima e la seconda domanda, cominciavi a scavare e loro erano molto liberi di parlare. Per me è stato molto importante tenerli protetti.
PF: Oserei dire che i testimoni che hanno partecipato al documentario erano già in una fase evoluta di maturazione dei propri complessi, a tal punto che potevano raccontarli senza subirne le ripercussioni. Altri invece erano ancora nel mezzo delle proprie riflessioni personali e non sono riusciti ad aprirsi.
Come accade anche nel precedente lavoro di Matteo, il documentario In prima linea (regia di Matteo Balsamo e Francesco Del Grosso, 2020) , la fotografia torna ad occupare un ruolo di rilievo e molte delle numerose voci che ascoltiamo appartengono a fotoreporter. A che cosa è dovuta questa scelta e che cosa rappresenta per voi la fotografia?
PF: Apro soltanto dicendo che ce l’hanno detto in tanti. Sarebbe più semplice, ma più scontato, far vedere dei video, ad esempio. Invece la fotografia dice e non dice, utilizzare la fotografia e non il video è un modo indiretto per toccare l’argomento in modo più delicato possibile, nonostante l’argomento poi venga fuori con la sua dirompenza e delicato magari non lo sia neanche.
MB: Sono molto appassionato di fotografia. Penso che la fotografia abbia qualcosa in più, la foto è quella che ti ricordi. C’è sempre quella foto che magari ti viene in mente e ti dici: «Impressionante quella foto che…». Per me far vedere queste foto, raccontate da loro [i fotoreporter – ndr], era veramente come entrare in un altro film. Loro raccontavano la foto nel momento in cui l’hanno scattata. Questi scatti sono molto importanti.
Come avete lavorato al progetto? Che tipo di ricerche avete fatto e come avete raccolto il materiale d’archivio?
MB: Per quanto riguarda il materiale d’archivio è stata una ricerca molto importante. Volevo capire cosa è successo all’epoca, come venivano trattate [le persone affette da disturbi mentali – ndr], quali erano le interviste. Ho visto tantissimo materiale, ore e ore di materiale d’archivio. Abbiamo visto quello di Aamod, Cineteca di Bologna, quello dell’Istituto Luce e altri ancora. Per me è stato un po’ come quando si inizia a guardare una serie, vedi la prima puntata, poi devi vedere subito la seconda, la terza, la quarta e la vedi tutta, e stai magari quattro o cinque ore attaccato al televisore per vedere come va a finire. Per me era la stessa cosa. Io vedevo un filmato e subito ne dovevo vedere un altro, e subito ancora un altro. Capitava che delle sere stavo attaccato al computer quattro o cinque ore. Poi dovevo segnarmi le parti che mi potevano interessare. È stato un grande lavoro quello sul materiale d’archivio. In più, con Paolo, volevamo raccontare la malattia mentale non solo in Italia e quindi abbiamo cominciato a fare una ricerca per capire chi poteva raccontare la malattia mentale attraverso le fotografie anche fuori dall’Italia.
In che modo avete scelto le persone da includere nel documentario?
PF: Per quanto riguarda le persone che abbiamo contattato via via, è stato un lavoro in fieri, da cosa nasce cosa, da una chiacchierata vengono fuori altri contatti e così via. Finché Matteo non è stato contento del materiale che abbiamo recuperato, andavamo avanti a fare interviste a personaggi che ci sembrano interessanti per quanto riguarda il racconto. Questi personaggi tiravano fuori altri nomi, così noi ripartivamo a informarci su questi nuovi profili, li contattavamo, andavamo a parlarci, se la storia era interessante da raccontare, si faceva l’intervista e via così. È stato un lavoro a catena.
Questa domanda è per Paolo. Come hai lavorato sulle musiche? Da quali suggestioni sei partito?
PF: È stato un lavoro lungo. In In prima linea, il docufilm precedente, avevamo scritto le musiche quasi tutte prima, prima di vedere qualsiasi immagine. Poi abbiamo fatto un lavoro certosino sulle immagini, quando il montaggio è stato concluso, però le musiche erano già state scritte prima. Non è questo il caso, Nei giardini della mente mi dà molta più soddisfazione perché abbiamo scritto davvero sulle immagini, sul montaggio concluso. Su indicazione di Matteo, avevamo scritto qualche brano prima seguendo dei mood generali, che Matteo aveva in mente su sequenza specifiche, ma il grosso del lavoro è stato fatto davanti alle immagini. Matteo veniva a casa mia e con davanti la tastiera ci mettevamo davanti al monitor e si improvvisava davanti alle immagini. Quando trovavamo il tema o il motivo, il nucleo di note che potesse descrivere in modo efficace una sequenza, poi andavamo a fiorirlo. La maggior parte del lavoro è stato fatto sull’immagine, anche quando i temi ritornano. Tutti i temi che abbiamo sviluppato li abbiamo sviluppati andandoli a variare sempre sulle nuove immagini. Penso che questo si senta, che arrivi al pubblico, mi soddisfa come questa cosa risulti efficace.
MB: Volevo aggiungere questa cosa sulle musiche, anche se suono a malapena la chitarra. Tre note, il giro di Do e basta. Però la cosa interessante è che Paolo è venuto più volte sul set, dove c’erano degli strumenti musicali particolari, e lui, con il fonico, riprendeva il suono. In certi punti del film ci sono dei suoni particolari e sono suoni che Paolo ha ripreso nelle location dove andavamo.
PF: C’erano strumenti particolari, abbiamo trovato un salterio, un violino da un quarto, di quelli per bambini, un pianoforte a coda completamente scordato. Con il fonico di presa diretta campionavamo tutti questi strumenti – alcuni erano strumenti, altri erano semplicemente suoni che ci piacevano – che rimandavano a quella location.
Il film sceglie di raccontare lo stigma della malattia mentale al presente, ma in dialogo continuo con il passato, e si opta per un racconto polifonico, a più voci, in cui prevale un approccio orizzontale: tutte le persone intervistate, psichiatri, persone con disturbi mentali, familiari e fotoreporter sono posti sullo stesso piano. Queste due scelte sono state presenti fin dall’inizio del progetto o sono maturate naturalmente nel corso della lavorazione del film?
MB: Bella domanda, sì, tutte le persone sono allo stesso livello. Io nel documentario non volevo neanche mettere i nomi e i cognomi, però per una questione di intelligibilità bisogna comunque dire chi sono. Io li ho messi tutti quanti allo stesso livello, per me erano tutte persone che parlavano di umanità, era molto umano quello che dicevano. Ci ho sofferto un po’ a mettere i nomi.
Un’altra cosa molto importante per noi è l’archivio sonoro di Anna Maria Bruzzone, delle interviste che Anna Maria Bruzzone faceva a questi pazienti. Nel film ci sono delle interviste, si sente la voce di Anna Maria Bruzzone. Noi lì eravamo a Colorno, nel manicomio abbandonato dove avevamo chiesto i permessi per entrare e fare le interviste. Quando io e Gianluca, il direttore della fotografia, siamo andati a fare le riprese, eravamo con due camere, uno in un piano e l’altro su un altro piano, e io avevo i brividi dietro la schiena, forse perché stavamo lì, in quel posto dove avevano vissuto tantissime persone, dove sono morte tantissime persone, noi lì da soli, io e lui. Se vedevi questi posti, sono posti enormi, con corridoi lunghissimi, stanzoni grossi, magari c’erano tremila brande lì dentro. Nel film si vedono delle brandine, ci sono buttati ancora dei referti medici. Noi per rispetto non abbiamo voluto toccare niente. Per me entrare in quel posto e registrare con le voci di Anna Maria Bruzzone, come se al pubblico restituissi questa cosa che loro parlano e nel frattempo tu stai vedendo quella location, ma ai giorni nostri, per me è stato molto molto emozionante.
PF: Evocativo, sì. Adesso poi è completamente fatiscente, ci sarebbe da chiedersi se parte di quella fatiscenza fosse già così all’epoca. Probabilmente era già decadente…
Mi permetto di dire, a livello di montaggio, dato che hai parlato di coralità degli interventi, che all’inizio Oltre il giardino non era previsto. Il montaggio che aveva in mente Matteo – perché via via lui faceva degli schemini che condivideva con me, avevamo questi schemini scritti a mano, con il fulcro del film e tutti gli altri elementi che gli ruotavano intorno – all’inizio era molto più psichiatrico, orientato all’argomentazione scientifica. Da quando abbiamo conosciuto Oltre il giardino, Matteo ha stravolto lo schema, ha messo al centro Oltre il giardino, quindi il lato umano di fatto, perché sono semplicemente pazienti e volontari, non sono psichiatri, non sono psicologici, non sono giornalisti, e psichiatri, psicologi e giornalisti gravitano tutto intorno. Quindi Oltre il giardino ha assunto un ruolo centrale, abbiamo cambiato le carte in tavola man mano che lavoravamo.
L’ultima domanda riguarda i vostri progetti futuri. State già lavorando a qualcosa di nuovo?
PF: È un po’ presto per parlarne, probabilmente andremo in una direzione ancora più delicata. Penso che sia, rispetto a In prima linea e Nei giardini della mente, il docufilm forse più delicato di tutti. Per adesso non possiamo esporci, dipende ancora da tanti fattori, tra cui il fatto di trovare delle testimonianze che siano attendibili e che siano anche semplicemente disponibili a parlarne apertamente, e non è semplice.
MB: Ci hai fatto questa domanda oggi, giorno in cui Paolo ha già parlato con uno dei probabili protagonisti del prossimo documentario… quindi sì, ci sono dei progetti, vorremmo raccontare un’altra situazione a livello umano molto importante per noi e per far capire alle persone un altro spaccato di vita.
PF: Sì, diciamo che siamo in uno studio di fattibilità. Poi, ultimo ma non ultimo, ci piacerebbe spostarci verso la fiction prima o poi. La fiction è una lavorazione completamente diversa, ci piacerebbe misurarci anche con quella.
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