
Samuel Beckett – Viaggio attraverso l’assurdità del reale
La nota carriera teatrale di Samuel Beckett comincia nella seconda parte della sua vita, a Parigi, dopo la seconda guerra mondiale. I lasciti del tragico momento storico portano con sé un terreno fertile per la nascita di quello che verrà chiamato Teatro dell’assurdo, definizione data da Martin Esslin per un teatro che vedrà come suoi massimi esponenti Samuel Beckett e Eugène Ionesco.
Stiamo parlando di un teatro nato tra gli anni 40 e 50 del ventesimo e secolo, un’ espressione diretta e disperata delle contraddizioni della società, che ribalta le norme teatrali e mette in luce lo straniamento dell’uomo contemporaneo. La solitudine e la confusione dell’essere umano in un mondo che pare privo di logica, si riflette in un teatro che, al posto di narrazioni lineari e personaggi razionali, predilige una riproposizione del reale come visto attraverso una lente distorsiva, o forse semplicemente d’ingrandimento. Sulla scena è rappresentato un mondo tragico e comico, che può far ridere o piangere, ironizzare sulle tendenze umane o disseminare sgomento a causa della lucida messa in scena dell’insensatezza della vita.

Samuel Beckett Nasce nel 1906 a Dublino, città in cui avverrà la sua formazione. Dopo la laurea in lettere moderne si trasferisce a Parigi dove, in un primo periodo, lavora presso l’università come lettore di lingua inglese, qui conoscerà James Joyce, autore che condivide con Beckett le medesime origini irlandesi. Quello con Joyce sarà un rapporto che tra alti e bassi gioverà molto a entrambi gli autori sia a livello umano che artistico.
Durante la seconda guerra mondiale Beckett in quanto cittadino di un paese neutrale, non è chiamato alle armi e può restare in Francia. Qui si unisce alla resistenza francese svolgendo la funzione di corriere, fino a che, dopo l’arresto di diversi suoi amici, si sente in pericolo e decide di ritirarsi con la moglie Suzanne Dachevaux-Dumesnil in campagna vicino ad Avignone dove si offre di nascondere le armi dei resistenti.

Il periodo successivo alla guerra, che vede il rientro a Parigi, è molto fruttuoso a livello artistico, Beckett si occupa già da tempo di scrivere testi letterari, in questa fase scrive infatti La trilogia dei romanzi composta da Molloy, Malone muore e L’innominabile. È in questo momento che inizia anche l’importante fase di scrittura teatrale che gli permetterà di esprimere al meglio la sua poetica. Grazie alle potenzialità comunicative e simboliche del teatro, in grado di evocare molto nel poco, Beckett riuscirà a dare voce al suo sentire ricreando, con scenari spogli e pochi personaggi sconclusionati, un mondo contorto a proposito del quale verranno versati fiumi d’inchiostro e che renderanno l’autore celebre in tutto il mondo fino all’assegnazione del premio Nobel nel 1969.
Per avvicinarsi alle opere di Beckett bisogna prima comprendere come l’assurdità della guerra abbia avuto ripercussioni lungo i decenni successivi soffocando una società che cercava di ricomporre i propri pezzi, vittima delle sue stesse contraddizioni e che vedeva scorrere sotto i propri occhi lo spettacolo costante di dinamiche di potere e ipocrisia. Il teatro dell’assurdo assimilò la mancanza di certezze e la ricerca di senso contemporanee e le ripropose al pubblico tale e quali, lasciandolo sgomento e senza una morale o una soluzione. Un assaggio di tale poetica può essere dato visionando brevemente alcune tra le più importanti opere di Beckett.

Aspettando Godot è la prima drammaturgia di Beckett; scritta in francese per la pubblicazione del 1952 e solo successivamente tradotta in inglese, costituisce il motivo iniziale della fama internazionale dell’autore in ambito teatrale.
Aspettando Godot è il racconto di un’attesa inconcludente, di speranze spezzate, di una confusione che non può fare altro che crescere insieme al desiderio di autoannullamento dei personaggi. Vladimir ed Estragon sono una coppia di vagabondi che, per due interminabili atti, attende un uomo chiamato Godot. Non sanno chi sia, che aspetto abbia, ma sanno che se arriverà saranno salvati. In un perfetto affresco di un mondo in cui l’assenza di certezze fa scivolare l’uomo nel baratro Beckett fa ridere il pubblico con quello che si potrebbe definire un cabaret tragico che, con il suo finale irrisolto, insinua un’angoscia condivisa, mettendo in luce la condizione esistenziale dell’uomo moderno. All’interno della scenografia il solo che sembra non essere soggetto a questa immobilità è un albero che, unico elemento scenografico, muta con il variare delle stagioni: se all’inizio del primo atto è spoglio, nel secondo mostra i segni della rinascita primaverile. Lo spauracchio della futilità della vita, la paura di non aver motivo di esistere, se non si verrà salvati dall’arrivo di Godot, convive con la forza della natura che segue il proprio flusso, opposto alla disperata routine sclerotizzata degli esseri umani. Uno spiraglio di speranza non è quindi del tutto assente nelle opere di Beckett, se pur estremamente nascosto e interpretabile. Tale fievole appiglio può essere visto anche in Finale di partita (1957) quando Clov, servo del vecchio Hamm, guardando fuori dal bunker in cui si svolge tutta la vicenda vede in lontananza un bambino, unico essere umano rimasto nello scenario post apocalittico davanti a loro.

Man mano che l’opera di Beckett diviene più matura, negli anni aumenta il senso di claustrofobia delle scene e la mobilità dei protagonisti nello spazio si fa via via più ridotta. Se infatti in Aspettando Godot gli attori protagonisti stanno fermi nello spazio, ma per loro volontà e hanno la possibilità pratica di muoversi, lo stesso non si può dire per Hamm che è paralizzato su una sedia e cieco mentre Clov ha importanti problemi di movimento che gli impediscono di sedersi, per non parlare dei genitori di Hamm che sono quasi del tutto immobili dentro a dei barili. L’apoteosi si raggiunge in Giorni felici, opera del 1961 che vede come protagonisti due coniugi: Winnie, che se all’inizio del primo atto è sommersa da un cumulo di terra solo fino al busto, al termine dello spettacolo ha la testa come unica parte emersa, e suo marito Willie che può solo strisciare e ha difficoltà a comunicare. Il corpo e la mente di questi individui costituiscono delle gabbie ed essi ci si adattano. I personaggi di Beckett rimangono invischiati nelle loro stesse dinamiche trovando rifugio nelle proprie routine individuali e di coppia; sperano sì in un cambiamento, ma non sanno come attuarlo e finiscono per rimanere inermi, in attesa di un evento miracoloso che dia un senso alle loro esistenze.
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