
Memoria e trauma – Intervista a Jonas Poher Rasmussen, regista di Flee
Domenica 3 aprile il cinema Jolly di Bologna ha ospitato una proiezione speciale di Flee, il documentario d’animazione del regista danese Jonas Poher Rasmussen. Il film, che ebbe la sua prima assoluta al Sundance Film Festival 2021, era stato presentato in anteprima italiana alla 17ª edizione il Biografilm Festival 2021, dove si è aggiudicato il Best Film Award, il premio come miglior film del concorso internazionale, e l’Audience Award all’interno del concorso internazionale. Il regista, allora, a causa delle misure restrittive anti-Covid, non riuscì a essere presente alla cerimonia di premiazione del Festival. Finalmente, in occasione della proiezione speciale di Flee, Jonas Poher Rasmussen ha potuto essere presente a Bologna per partecipare a un dibattito con il pubblico e ricevere dalle mani del Direttore Generale del Biografilm Festival Massimo Mezzetti i due premi.
Flee porta sullo schermo la storia di Amin, amico del regista dai tempi del liceo e affermato docente universitario, che decide di rivelare per la prima volta il lungo viaggio che lo ha portato dall’Afghanistan fino in Danimarca. Flee parla di fuga ma anche del bisogno di trovare una vera casa dove essere se stessi. In occasione degli Oscar 2022, il film di Jonas Poher Rasmussen è entrato nella storia ricevendo contemporaneamente candidature come Miglior Film Internazionale, Miglior Documentario e Miglior Film d’Animazione.

Come hai capito che l’animazione era l’unica strada possibile per realizzare Flee?
Per una serie di ragioni diverse. Innanzitutto, c’era il bisogno di mantenere l’anonimato. Quella che si sente nel film è la vera voce di Amin che racconta la sua storia, e non è stato affatto facile per lui riuscire a parlarne. È la sua vita, il suo trauma, e lui riesce a parlarne apertamente con me, mentre con altre persone non sarebbe stato possibile. L’anonimato dato dall’animazione permette ad Amin di mantenere il controllo sulla sua vita, sul momento in cui sarà pronto a condividerla con gli altri mettendoci la sua faccia. Non sarà costretto a sentire in giro i commenti delle persone che non lo conoscono, ma che vorranno sapere ad esempio cos’è successo durante il suo viaggio. È stata questa sicurezza a spingerlo ad aprirsi.
Un’altra ragione è indubbiamente il fatto che gran parte della storia sia ambientata nel passato e l’animazione ci permette di riportare in vita il passato, di ricreare l’Afghanistan degli anni 80 e la Russia degli anni 90. Flee è soprattutto una storia che parla di memoria e trauma. Sapevamo che attraverso l’animazione avremmo potuto esplorare davvero le emozioni di Amin in un modo profondamente diverso rispetto a ciò che ci avrebbe permesso di fare una normale cinepresa.
Penso anche che al giorno d’oggi siamo esposti a molte storie di questo tipo. Nel mio caso, mi capita a un certo punto di bloccare tutto questo dolore perché non riesco ad affrontarlo tutto. Essendo Flee un film animato, penso che quelle barriere cadano. È più facile vedere soffrire un personaggio disegnato piuttosto che una persona vera. Parlare di tematiche difficili attraverso l’animazione aiuta ad “alleggerirle” e così facendo le persone prestano più attenzione alla storia raccontata che al contempo diventa anche più universale.

Il film si apre interrogandosi sul concetto di Casa. Pensi che il fatto che Amin abbia deciso di raccontare la sua storia lo abbia aiutato a rendersi conto di quale sia la sua vera Casa?
Sì, sicuramente. Amin ha passato gran parte della sua vita a fuggire da qualcosa. Il film dopotutto si chiama Flee (Flugt in lingua originale), che significa fuga. Si parla di una fuga fisica, quella dall’Afghanistan alla Danimarca, ma è soprattutto un uomo che sta cercando un posto nel mondo dove può essere se stesso senza sacrificare nessun aspetto della sua persona. Per questo si tratta anche di poter vivere il proprio orientamento sessuale.
Quando era un ragazzino in Afghanistan, non poteva essere apertamente gay. Quando è arrivato in Danimarca, non poteva essere onesto sul suo passato. Così per tutto questo tempo ha cercato un posto dove potesse essere interamente se stesso e finalmente l’ha trovato. Adesso si sente al sicuro e raccontare la sua storia lo ha aiutato perché prima percepiva sempre una divisione tra il sé del presente e quello del passato.
Il film è raccontato da Amin in prima persona. Come avete organizzato le interviste e come si è svolto il racconto da parte di Amin?
È stato un processo in divenire. All’inizio ho cercato di avere una prima struttura dell’intera storia, partendo dall’Afghanistan e arrivando di Danimarca, e poi si è trattato di andare sempre più in profondità nei suoi ricordi. Abbiamo fatto circa 20 interviste nel giro di quattro/cinque anni e lentamente approfondivamo, ritornando su quello che ci eravamo già raccontati e aggiungendo i dettagli che Amin si ricordava col tempo.

Flee nasce, come hai detto in precedenza, tra memoria e trauma. Pensi che il cinema sia il medium più efficace per esplorare questo tema?
Penso che raccontare storie, ascoltarle e condividerle abbia un potere curativo. Non penso che debbano necessariamente essere accompagnate da delle immagini, ma il cinema apre un vero e proprio mondo per il pubblico in modi che altri medium difficilmente riescono a fare. Credo che tuttavia l’aspetto più importante sia raccontare, connettersi con gli altri, scoprire mondi che non conosciamo e iniziare a identificarci con persone con cui normalmente non ci identificheremmo.
Pensi che la tua amicizia con Amin abbia contribuito a far emergere le emozioni più profonde e anche i ricordi più particolari che traspaiono nel film?
Sì, indubbiamente ha cambiato molto. Amin ha fatto coming out con me quando avevamo 17 anni e da quel momento si è creato un rapporto di fiducia e rispetto tra noi due su cui si basa l’intero film. Mi ha rivelato il suo segreto perché si fida di me. Il film sarebbe estremamente diverso se non ci fosse stata la nostra amicizia, anche perché penso che sia ambientato dentro il nostro rapporto e non possa essere scisso da esso. La fiducia che c’è tra di noi fa emergere tante sfumature della storia. Abbiamo le risate. Abbiamo lui che balla in mezzo alla strada, i suoi gusti musicali, la cotta per un ragazzo conosciuto mentre attraversava l’Ucraina perché sono tutti i dettagli che rendono Amin la persona che è.
Quando ho deciso di fare Flee, non son partito con il desiderio di raccontare la storia di un rifugiato. Volevo raccontare la storia del mio amico in quanto essere umano. Sì, è un rifugiato, questo è indubbiamente qualcosa che lo ha segnato e che porterà sempre con sé, ma è prima di tutto un umano, un brillante accademico, un marito, il proprietario di una casa, ha un gatto, ama il suo giardino, la musica e tutte queste cose costituiscono la sua persona. È sbagliato metterlo in una scatola e definirlo solamente con il termine “rifugiato”. La nostra amicizia aiuta a far emergere tutti gli aspetti della sua persona.
È stato difficile trovare un equilibrio tra il raccontare la vita di Amin in tutte le sue sfumature e il suo bisogno di restare anonimo?
Lo è stato fino a un certo punto. Abbiamo avuto dal governo danese il suo incartamento di quando è arrivato nel Paese e una volta appurato, grazie a un avvocato, che l’asilo gli era stato concesso in quanto proveniente da un Paese in guerra e non per la storia che raccontava, già per questo non c’erano problemi legali. L’unico motivo per cui ci siamo preoccupati di mantenere l’anonimato è per lasciargli il controllo della sua storia. Molte persone in Danimarca sanno chi è. Ci sono delle cose che abbiamo cambiato tuttavia nel film come il nome o l’aspetto. Ad esempio, io stesso nel film sono biondo. Sono state modificate anche alcune location, per fare in modo che fosse difficile scoprirlo. Se una persona volesse rintracciarlo, potrebbe, ma finora i giornalisti sono sempre stati molto rispettosi della sua privacy.
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