
Tutto Brucia – Motus incendia il Teatro
Da trent’anni tra i massimi protagonisti della ricerca internazionale, la compagnia romagnola Motus guidata da Enrico Casagrande e Daniela Nicolò – fino a luglio 2021 alla direzione di Santarcangelo Festival – torna a far vibrare il teatro della Triennale di Milano dal 4 al 6 novembre con Tutto Brucia, uno spettacolo «inevitabilmente oscuro, eppure colmo di abbacinante furore», che fin dal titolo che evoca le parole di Cassandra nella riscrittura di Jean Paul Sartre delle Troiane di Euripide.

Questo nuovo progetto persegue infatti il desiderio di continuare lo scavo, dopo il viaggio dentro l’Antigone, fra le più scomode figure femminili del tragico che ancora oggi riverberano sul presente.
Le Troiane si è lasciata manipolare da innumerevoli registi per innumerevoli rappresentazioni, ma con i Motus accende molteplici riflessioni sul presente, stratificate e complesse. La traiettoria della ricerca, cominciata prima del lockdown, ha assunto infatti con la pandemia una nuova urgenza: quella di raccontare, attraverso il mito, la fine che abbiamo attraversato e che continua a incombere sulla nostra epoca.
L’opera di Euripide inizia infatti con una fine. Tragedia anomala, senza conflitto e tessitura: il conflitto è alle spalle, Ilio è già stata distrutta; le donne, ridotte a bottino di guerra, attendono la spartizione, di lì a poco partiranno per mare, schiave, verso territori stranieri. Non c’è trama né intreccio: è la fine di una civiltà, e ciò che resta, tra le rovine, è un perpetuo evocare gli spettri del passato, che ancora agitano il presente. Il futuro è incerto, e pericoloso – eppure, ancora tutto da immaginare. É lo specchio mitico ma tangibile di un’altra fine. La nostra.

Una scenografia nera come il petrolio, l’atmosfera è lugubre, cupa: in uno spazio vuoto, coperto da cenere e cadaveri mostruosi, la musica si eleva da un lato del palcoscenico, vischiosa, elettronica, e la voce di Francesca Morello (R.Y.F.) accompagna la discesa in un ambiente abissale e opaco, definito dalle luci al neon, che costringe i movimenti in geometrie strette e ingabbiate. Affondiamo in un paesaggio postumano che si confonde con lo spettro di una città sepolta.

Dal fondo, nell’oscurità, si agita qualcosa, e dalle viscere della terra arsa, emergono due corpi, due figure larvali – Silvia Calderoni e Stefania Tansini – che sembrano svegliarsi da un torpore bestiale e doloroso. I loro movimenti, ora frenetici ora flemmatici, si tramutano in danza per poi implodere in movimento sconnesso, epilettico, incalzato dal ritmo progressivo di R.Y.F. che canta versi in inglese, una lingua che sembra provenire da un altro mondo, vicino eppure lontanissimo.
E poi, dall’esposizione della vulnerabilità dei corpi, emerge la parola: la profezia di Cassandra, che vede oltre la fine e dà fuoco al futuro, il grido spettrale di Polissena, l’invocazione ai morti di Andromaca e la sua dignità materna, le violenze subite da Elena, figura cardine e contrastante, la cui innocenza torna a esporsi in tutta la sua fragilità. Parola che si fa materia, infine, nell’ultima carezza al corpo innocente e inerme del bambino, Astianatte, simbolo del futuro negato.

In questo campo di tende, fango e lamiera, dove le prigioniere aspettano di essere fatte schiave, si condensa il nostro tempo, l’epoca dell’Antropocene, destinata all’autodistruzione: la pandemia, il disastro climatico, le migrazioni disperate prendono forma in un paesaggio emotivo.
Le performer, attraverso le parole tratte dal mito, danno voce ai soggetti più esposti e vulnerabili: attraverso il dolore i personaggi nella scena tragica si trasformano materialmente, divengono altro da sé, in una metamorfosi che apre verso altre possibili forme. La rivendicazione del corpo, il lutto, il Mare Nostrum, il ruolo della donna e quello dei migranti gravitano intorno al nucleo del dolore, allo strazio del lutto, che si fa questione fortemente politica.

Non più speranza. Non più requiem. Solo il silenzio squarciato dalle urla, le rovine di un tempo perduto. Tutto attorno è concluso. I morti non hanno più esequie. Come durante la pandemia, le cerimonie per i morti sono state sospese, e i corpi sono stati sepolti di nascosto, senza saluto, e lo stesso accade ogni giorno per i corpi migranti morti in mare, per i clandestini o per le prostitute giustiziate dal sistema della tratta: quali vite contano, cosa rende una vita degna di lutto?
Nel solco della tragedia classica si innesta il pensiero di Judith Butler, Ernesto De Martino, Edoardo Viveiros de Castro, NoViolet Bulawayo, Donna Haraway, componendo un impianto testuale variegato e complesso, grazie alla ricerca drammaturgica di Ilenia Caleo. È un lamento tanto immaginifico quanto reale, quello di Tutto Brucia, che vuole (ri)scrivere il mondo che verrà.

La ricerca di Motus corre talvolta il rischio di stemperare la forza del proprio assunto, perdendo vigore sul piano del dinamismo e della tensione narrativa: se l’architettura espressiva è rigorosa e efficace, lo spettacolo in alcuni momenti sembra rimanere vittima, dal punto di vista stilistico, dell’ipnosi tenebrosa e centrifuga prodotta dalla sospensione dolorosa che aleggia sulla rappresentazione, e che può risultare faticosa alla percezione dello spettatore.
L’impianto immaginato da Daniela Nicolò e Enrico Casagrande, comunque, fonde con forza ed efficacia la ricerca drammaturgica sul testo classico alla dimensione performativa e musicale: Tutto Brucia vibra nell’eco della tragedia, vi si immerge fino a diventare il canto fatale, irrimediabile, di una ferita che non ha più margine di sutura, divenendo monito e supplica dall’eco indelebile e fragorosa.
Regina della notte infiamma le stelle.
Quante torce: tutto brucia.
Sono abbagliata, tanto meglio.

TUTTO BRUCIA
ideazione e regia Daniela Nicolò e Enrico Casagrande
con Silvia Calderoni, Stefania Tansini e R.Y.F. (Francesca Morello) alle musiche
testi delle lyrics Ilenia Caleo e R.Y.F. (Francesca Morello)
ricerca drammaturgica Ilenia Caleo
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