
All about Lily Chou Chou – Il criptico titolo di Shunji Iwai
Se c’è qualcuno che è portatore di carica eterea tra gli artisti musicali, quel qualcuno è probabilmente Bjork, o i Beatles. Due certissimi portatori designati di Etere (rigorosamente con la ‘e’ maiuscola) sono invece Debussy e Lily Chou Chou. Chi lo dice? Un certo Philia, admin di un fan site della medesima cantante nipponica, a quanto pare celeberrima. E perché non la conosciamo? Perché Lily Chou Chou non esiste, o meglio, esiste nella finzione di All about Lily Chou Chou, lungometraggio del regista Shunji Iwai (autore, tra i vari, di Love Letters e The Marriage of Rip Van Winkle), che usciva per la prima volta in sala esattamente 20 anni fa.
Philia confessa apertamente il suo amore per Lily sulla chat-room del sito, elaborando con gli altri fan (tutti sotto pseudonimo) riflessioni complesse sulla natura eterea della musica dell’artista. Altra domanda che sorge spontanea: cosa sarebbe questo Etere? Una sorta di afflato magico, magari, come a dire la dote, esclusiva di pochi, di incanalare e generare un qualche respiro celeste attraverso la creazione artistica. Domande di questo tipo sorgono spontanee durante la visione del film di Shunji Iwai, un po’ perché All about Lily Chou Chou gioca a mistificare il proprio racconto (cronologicamente, soprattutto), e un po’ perché al centro sta la sfera emotiva degli adolescenti, coi suoi caratteri di cripticità, se non di totale impenetrabilità.

Dietro l’admin Philia si nasconde infatti il quattordicenne Yuichi Hasumi, che subisce lo scotto di una personalità docile e remissiva venendo comandato a bacchetta dai bulli della sua scuola. La sua zona franca non può che diventare allora quella del dialogo coi fan di Lily e l’ascolto contemplativo delle sue canzoni, spesse volte nell’isolamento quasi ascetico immerso in ampie praterie di campagna. Non solo Yuichi, anche Hoshino, studente a parere di tutti brillante e che per questo procura le invidie dei coetanei, subisce lo stesso trattamento. Hoshino e Yuichi fanno presto amicizia, uniti pure dalla musica di Lily, fino a quando il primo, durante una gita estiva sulle spiagge di Okinawa, si accascia misteriosamente al suolo e sfiora la morte. Al suo risveglio, il ragazzo si trasforma in tutt’altra persona: da iper sensibile a profondamente insensibile, da bullizzato a bullo. Sono sue le trovate feroci mediante le quali i suoi tirapiedi molestano le ragazze fino a ridurle al silenzio e in stati pietosi. E Yuichi non può che restare a guardare, irretito dalla veemenza caratteriale del compagno.
L’immagine del dolore, allora, del capo basso di Yuichi in primo piano e degli ammiccamenti volontari alla morte da parte di una ragazza che non vuole più essere obbligata a prostituirsi, quest’immagine, ecco, non può stare da sola e autosostenersi. La affianca, anzi la spezzetta continuamente, irrequieta, l’immagine della consolazione nella chat-room, in un’inquadratura nera che mostra in sovrimpressione solo i caratteri bianchi delle conversazioni a distanza, tra i cultori di Lily che vogliono sopperire a quei gesti laidi e vergognosi della vita vera (nel senso di vita oltre lo schermo), richiamandosi a quella purezza eterea delle note di Lily e alle confessioni dei loro cuori a pezzi.

Mi è capitato di recente, qualche giorno prima del recupero di Lily Chou Chou, di godermi l’approdo su Mubi di Summer Palace (2006), uno dei titoli più amari e assieme dolci di tutto il cinema cinese. Affianco i due film per una mera questione di contiguità temporale delle visioni (sarebbe del tutto impraticabile un confronto tra Lou Ye e Shunji Iwai), ma mi interessa un tema in particolare su cui entrambi a un certo punto convergono: il suicidio. Sia nell’uno che nell’altro riguarda una donna. Una più matura, in Lou Ye, è sconfitta dal dolore di una idealizzazione di vita sbriciolata dal massacro di Piazza Tienanmen. L’altra, in Shunji Iwai, è costretta alle pratiche vergognose dell’enjo kosai (una forma di prostituzione), fino a che, esasperata, un giorno non si gode uno spettacolo di aquiloni in volo – una scena di tenerezza disarmante, tra le migliori del film –, la musica di Lili Chou Chou nelle cuffie, come un lascito, una dissolvenza nella luce alla fine di tutto, e poi – stacco – la ritroviamo accasciata sul prato, immobile. A un’altra ragazza, che già ha subito uno stupro, viene rasata la testa a zero. Subito la mente vola ad una associazione con Zhou Dongyu in Better Days (2019, Derek Tsang), pelata e brutalizzata dai bulli della scuola. Il cinema cinese e quello giapponese hanno un catalogo sconfinato di figure tragiche, così vilipese e annichilite da essere indigeste (procurano il vomito a Yuichi e a tanti altri personaggi di queste cinematografie).
Ognuno trova riparo come può, affidandosi a qualcun altro o assolvendo le brutture del mondo nelle note di commiato cantate dalla voce eterea di Lily. Da parte sua, Shunji Iwai non dimentica però neppure la catarsi offerta dal cinema, dalle immagini. Appena tre anni prima, nel 98, Hideaki Anno aveva girato un film simile a questo, Love & Pop, uno dei primi titoli interamente digitali del cinema giapponese. Forse ispirato da questi, Iwai fece lo stesso con Lily Chou Chou, trovandosi però soprattutto a constatare la meraviglia delle riprese amatoriali. Un viaggio estivo lungo le spiagge di Okinawa viene allora ripreso dai ragazzini che vi prendono parte, montato interamente con queste immagini a bassissima risoluzione. Conta l’intenzione, il gesto, l’atto del vedere coi propri occhi il mondo che si costruisce tutt’intorno, gli amici che sbavano dietro le ragazze, le cantilene in barca e i bagni in mare. Ecco la catarsi, l’Etere – avrebbe detto Philia/Yuichi, dentro un luogo, le immagini, che preservi intatta l’esperienza dell’amore (non la sua esibizione). Prima che fuori – oltre le cuffie, il monitor che contiene la chat-room, la lente della videocamera – la vita riprenda a bussare alla porta.

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Uno dei miei film della vita, capolavoro straordinario, l’ho visto molte volte e continuo farlo per assorbire ancora e ancora quella luce, quei colori, quell’Etere.