
L’ultimo film di Cosimo Terlizzi: Dentro di te c’è la terra – Di emancipazione e ritorno.
Il ritorno al luogo di partenza può diventare un inizio nuovo, come un romanzo di formazione inverso, dove cultura e natura sono le due direttrici da percorrere. Dentro di te c’è la terra, ultimo film dell’eclettico regista, artista e performer Cosimo Terlizzi, ci accompagna nell’esperienza di sé nel mondo, già avviata nei precedenti lavori, riavvolgendo la storia al principio e tornando a “casa”. E lo fa inoltrandoci nella sua quotidianità, attraverso i suoi video- diari e conquistando, rispetto ai precedenti Folder (2010) e L’Uomo doppio (2012), una sintassi svincolata e sostenuta da riprese dirette che affrescano un bozzetto idillico.

L’ultimo film di Terlizzi, presentata allo scorso TFF nella sezione ONDE, è la narrazione di vissuti personali, che diventano una rapsodia di esperienze. L’invito a «banchettare con gli dei», non solo si riferisce al ricettario delle isole Eolie di Stefania Barzini A tavola con gli dei ( Guido Tommasi Editore, 2006), ma aggancia il titolo e le tematiche del precedente lungometraggio di finzione, appunto Dei , e introduce il nuovo epos, trasfigurato in quotidianità.
Il suo road movie iniziatico si avvia così, solcando le superfici delle acque di Alicudi, isola dove Terlizzi trascorre le sue vacanze con il compagno Damien e la sua amica e attrice Martina. Lo specchio d’acqua riflette immagini e sequenze narrative, dove vengono declinate, secondo parametri nuovi, le esperienze di novelli Narcisi e del loro rovescio. Nel paradosso di un luogo come l’isola che, per nomenclatura, è distante e nutre altra qualità di tempo, c’è Martina che decodifica l’idea di sé attraverso selfie, in una routine di simultaneità, e il suo rovescio: un ragazzo del luogo che, avendo di quella natura il dna, si aggira scalzo tra spine e rocce e appare imbevuto di espressioni spontanee, avulse da contesti societari marcati o accelerati. L’esperienza si fa mito svelato, quando un gioco tra amici in realtà diventa il dialogo con l’eco, generando un’atmosfera ancestrale, sospesa nella memoria delle acque e in attesa di essere richiamata per esistere, attraverso il solo gesto.

E’ la ritualità del gesto che ricorre, come già osservato con uno sguardo più drammaturgico in La benedizione degli animali (2013). Qui, però, i gesti si abbozzano e si risolvono in forma spontanea, raccogliendo con lo sguardo immagini di alberi segnati da vernici e cannibalizzati dal passaggio dell’uomo, ascoltando la lontananza dei rumori del traffico o appuntando a mano note su un quaderno. L’isola appare materia viva, il divino assume una forma intuibile ed esperibile come i gesti, appunto, che ognuno dei personaggi compie. Così i luoghi rivelano la loro funzione di segnali vivi da attraversare con il viaggio, emblema della dialettica. Allora o il Minotauro 3.0 si è liberato, oppure il suo labirinto si è dilatato liquido, come l’acqua e come la rete, portando la narrazione da Alicudi a Milano fino a Shangai. Nel tempio della serialità replicabile, dove trovarsi equivale a riflettersi su altre superfici, o nell’altro, tutto diviene esercizio per uscire fuori da sé. L’esplorazione è al suo culmine e l’emancipazione dell’individuo da se stesso sembra essere indicata da una freccia nera su un pavimento, o da un tappeto rivolto verso la Mecca.
L’impianto narrativo dunque, dell’ultimo film di Terlizzi rivela qui la sua libertà e il suo paradigma iniziatico, recuperando il senso del tempo bergsoniano, che non misura le capacità umane nel saper uscire dal percorso, ma solo sollecitano l’uomo ad affiorare in superficie mondata da doppelgänger. Restituiti dall’esperienza di sé in un codice unifcato ma flessuoso, si può scorgere se stessi attraverso l’altro e riavvolgere il nastro. Alla terra abbandonata, quella della primogenitura da cui si è scappati pensando di doversi divincolare per compiersi, si torna colmi di consapevolezze. Il sé, l’altro e l’habitat circostante, che come tripartisce E. Thacker in Tra le ceneri di questo pianeta (Nero Editions), costituiscono la parafrasi dell’uomo contemporaneo: «Il mondo, cioè il mondo –per- noi, la Terra ovvero il mondo-in sè, il pianeta, il mondo-senza-di noi ».
E questo Terlizzi lo sa bene affabulando, nell’ultimo capitolo dell’opera, la sua l’appartenenza al luogo, ovvero alla casa in campagna a Carovigno, procedendo per cornici in sequenze. Lo spazio aperto, il suo sguardo che vive il tempo attraverso fronde, rami, fioriture, la co-esistenza con i suoi animali e i suoi amici, con Malam, giovane che viene dall’Africa a cui insegna l’italiano e con cui la lingua araba e l’islamismo diventano nuovi passe-partout di coscienza del mondo. E’ definito quindi il microcosmo, aperto e costellato di molteplicità, come la materia viva scandita in alberi centenari, in sfumature di rossi diversificati della terra, in varietà botaniche e zoologiche tra piante spontanee e alloctone.
L’opera è al culmine del bozzetto teocriteo, in cui si definisce una poetica, non solo compositiva ma esistenziale, a cui Terlizzi si dedica non solo attraverso il cinema e l’impegno con la direzione artistica dell’Asolo Art Film Festival, ma anche attraverso pratiche quotidiane nella sua campagna e studio atelier Lamia Santolina. Come nella sua ricerca artistica, anche qui ogni traccia è presente, non rimossa, secondo l’idea di una coesistenza archeologica, che procede conoscendo la dimensione biotica per poi diventare simbiosi di elementi con- viventi.

Con Dentro di te c’è la terra Terlizzi risolve una fenomenologia connessa al processo immaginativo, svelando il come. Osservare se stessi come una parte di un tutto, osservarsi distaccandosi e poi ricongiungendosi, per riabitarsi. La propriocezione migliora la nostra cognizione di spazio e la responso-abilità a collocarci, perché non c’è qualcosa che si possa stabilire, ma solo ricavarsi. Il centro esatto è infatti solo il luogo in cui si posiziona.
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