
When they see us – Lo sguardo che condanna l’America
Addentrandosi nei meandri dell’assurda vicenda narrata in When they see us non si può fare a meno di domandarsi quale sia l’intonazione – e l’intenzione – con cui il titolo di questa miniserie debba essere pronunciato. Se la sua immediata nota assertiva sembrerebbe lasciare poco spazio all’immaginazione, qualcosa di più minaccioso pare nascondersi dietro le apparenze, richiedendo allo spettatore impegnato nella visione uno sforzo di interpretazione, di attribuzione dei ruoli e delle parti nella vicenda, persino di completamento di quella frase che lasciando sospeso il suo finale ci getta nel buio dell’imponderabile insieme ai protagonisti della storia.
Sul vedere e sull’essere visti si basa peraltro l’intera narrazione della miniserie creata per Netflix da Ava DuVernay (già regista di Selma e del documentario 13TH – XIII Emendamento, candidato all’Oscar nel 2016), che in quattro densi episodi racconta l’incredibile vicenda dei famosi Central Park Five, i cinque minorenni accusati, nell’aprile del 1989, di aver brutalmente picchiato e stuprato la jogger ventottenne Trisha Meili a Central Park, lasciandola in coma per 12 giorni. I cinque ragazzini, scelti arbitrariamente in mezzo a un gruppo di giovani che in quello stesso momento attraversavano il parco, vengono interrogati e minacciati da un’equipe di investigatori per diciotto ore, in completa violazione dei loro diritti e senza alcuna tutela legale. Dichiaratisi più volte innocenti, vengono manipolati e costretti a una confessione che segnerà l’inizio di un calvario mediatico e giudiziario interminabile. Da invisibili e semplici abitanti delle periferie della città, Antron McCray, Kevin Richardson, Yusef Salaam, Raymond Santana e Korey Wise si trasformano in mostri stupratori da sbattere in prima pagina, condannati dall’occhio mediatico ancor prima che il braccio di un sistema corrotto potesse orchestrare la loro colpevolezza.
Questo viaggio all’inferno viene portato avanti dalla regista con un racconto puntuale e nettissimo: nulla viene omesso delle fasi più dure che hanno condotto questi ragazzi alla rovina, e se l’occhio della camera restituisce un’adesione alla totalità, anche emozionale e psicologica, dell’esperienza di violenza e prevaricazione subita dai protagonisti, altrettanto precisa risulta l’analisi delle falle giudiziarie, morali e persino etiche del sistema giudiziario americano, dipinto come una macchina infernale dalle cui tenaglie è impossibile liberarsi. Questo continuo ragionare per grandi categorie permette di comprendere la complessa stratificazione della società americana, abituata ad attribuire ai cittadini giudicati meno virtuosi etichette non dissimili, per violenza e distruttività, dalle sbarre delle celle in cui spesso quegli stessi soggetti arrivano a perdere qualsiasi dignità. L’essere visti da un sistema che trascura e marginalizza i più deboli significa dunque diventare conveniente capro espiatorio prima, irredimibile reietto della società dopo: ben oltre le istituzioni corrotte, saranno gli stessi compagni di prigione delle cinque vittime a ingabbiarli nel loro ruolo di stupratori, e persino i componenti della loro comunità, una volta tornati in libertà, non potranno che guardarli con sospetto.
La consapevolezza della potenza della storia fa sì che l’equilibrio di quasi tutti gli episodi sia orientato intorno alla componente emozionale del racconto, peccando talvolta nello sviluppo delle caratterizzazioni dei personaggi: fagocitati dall’ingiustizia subita, i cinque giovani esistono sostanzialmente in funzione di quest’ultima, e faticano a guadagnarsi una propria individualità di soggetti al di fuori del fatto in sé. In tal senso la scrittura della serie trova i suoi punti più alti nelle prime due puntate, quando è la foga della ricostruzione dei fatti tramite la fase processuale a dominare la scena. La volontà di denunciare il continuo perpetuarsi dei soprusi non viene mai meno, e se l’Odissea carceraria di Korey Wise ha una messa in scena quasi cinematografica, le vicende da uomini liberi degli altri quattro protagonisti perdono la loro verve a causa dei tempi un po’ sfilacciati e di qualche lungaggine di troppo negli ultimi due episodi.
Al netto di queste piccole sbavature e al di là di qualsiasi specificità delle singole storie, riemergendo dalla visione di When they see us si ha l’impressione di aver assistito a qualcosa di importante, quasi come se un monito alla memoria di questi fatti dovesse restare impresso nella mente dello spettatore. Ciò che si impone è, in definitiva, un messaggio di denuncia che non lascia spazio a fraintendimenti. Lo stesso messaggio che oggi riecheggia forte e chiaro nel movimento Black Lives Matter, e che porta con sé una passione per la verità e un desiderio di giustizia capaci di resistere a qualsiasi sopruso pur di affermare il diritto di ogni essere umano a stare al mondo.
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