Cinema tascabile — 3 film per combattere la violenza | Filmmaker Festival 2025
Già Alexandre Astruc parlava nel 1948 di “Camèra-stylo” (camera-penna): una macchina da presa così piccola da poter essere portata in tasca, ovunque si voglia. Un oggetto del genere avrebbe rivoluzionato il modo di fare cinema, dato che avrebbe consentito al regista di avere la stessa flessibilità di una penna e di un taccuino per lo scrittore.
L’ultima edizione del Filmmaker Film Festival sembra seguire con grande attenzione le riflessioni di Astruc, e propone un programma che fa delle forme di ripresa digitali (cellulari, screen-recording) un punto focale, soprattutto nel modo con cui la facilità del loro uso nel quotidiano, esattamente come una penna, possa essere adattato in forme di racconto cinematografico. La selezione, infatti, sembra ricercare quella connessione evanescente, seppur onnipresente, fra i nuovi linguaggi che sono emersi con PC e smartphone, e l’effetto che queste stesse forme hanno sul quotidiano, sul sociale, e sul politico.
Di seguito, proponiamo tre film del concorso ufficiale che meglio rappresentano questa tendenza.
Afterlives – Kevin B. Lee

Il pioniere dei “Desktop Documentary”, documentari realizzati a partire dalla registrazione del proprio desktop, presenta, dopo 7 anni di lavorazione, il suo primo lungometraggio. Afterlives di Kevin B. Lee è il racconto, a metà fra il saggio e il diario, di come il regista/critico cinematografico abbia analizzato immagini di propaganda dell’ISIS per dare forma a una propria interpretazione sul rapporto esistente fra immagini e violenza.
Il film presenta sezioni in cui il desktop diventa una sorta di lavagna virtuale, in cui il montaggio non avviene più tramite tagli, ma attraverso aperture e chiusure di finestre, accostamenti e ridimensionamenti con il mouse di foto e video. Tutto quello che il montaggio nasconde tramite i tagli viene quindi esplicitato e messo a fondamento di tutta la narrazione. La tecnica (e l’illusione) più basilare del cinema è improvvisamente smascherata e rielaborata: la mancanza del montaggio esplicita le tecniche del montaggio stesso. Il film è prima di tutto una presentazione dei “trucchi” utilizzati per creare finzione, e come tali trucchi possano essere impiegati ai fini terroristici.
Tuttavia, lo sviluppo del film non è puramente teorico. Esiste un sincero tentativo, quasi un’ossessione, di dare alle immagini un senso etico, una sorta di giustificazione morale alla loro visione, e quindi alla loro esistenza. Ecco quindi che Lee “esce” dai confini del proprio desktop, e integra nel documentario sezioni di “vita reale”, focalizzandosi sulle storie di tre donne che, in un modo o nell’altro, sono anch’esse legate ai brutali video del califfato. Queste donne sono state capaci di ribaltare gli scopi propagandistici dell’ISIS rielaborando i video dell’organizzazione in opere d’arte, in strumenti di ricerca, o anche in mezzi di dissuasione per potenziali nuove reclute.
Lee pare trovare la connessione fra immagine e realtà proprio negli sforzi di queste donne: grazie alla loro forza etica la virtualità che ha permesso alla violenza di diffondersi nel mondo si concretizza, nella “realtà”, in strumenti di contrattacco e di rivalsa.
Put Your Soul on Your Hand and Walk – Sepideh Farsi

Due cellulari, uno per riprendere lo schermo dell’altro. Le funzionalità base dell’oggetto che più di tutti definisce i rapporti interpersonali della contemporaneità diventano occasione di una serie di video-chiamate fra la regista iraniana Sepideh Farsi e la fotoreporter palestinese Fatima Hassouna, quest’ultima bloccata a Gaza sotto gli attacchi di Israele.
La forza di Put Your Soul on Your Hand and Walk sta nel comprendere appieno le implicazioni del proprio gesto cinematografico: il genocidio fa parte della quotidianità del popolo palestinese esattamente come una video-chiamata Whatsapp, la violenza è integrata nella vita esattamente come la tecnologia degli smartphone. Si respira, nei primi piani a bassa risoluzione di Fatima, la brutalità di una tragedia umanitaria.
Questa terribile consapevolezza è tuttavia solo uno sfondo per il film. Non nascondendo la violenza e la distruzione, ma neanche dandone un’esibizione pornografica, Hassouna pone l’accento su un concetto che pare essersi fatto sempre più strada in molto del cinema contemporaneo: l’empatia come atto politico. Il rapporto che si costruisce fra Fatima e la regista è la testimonianza, prima di una tragedia storica, della formazione di un’amicizia. Tutto il film si sviluppa quindi come un tentativo di dare alla connettività virtuale una valenza “umana”, di dimostrare attraverso l’immagine cinematografica che la connessione fra dispositivi corrisponde a una connessione fra esseri umani.
Put Your Soul on Your Hand and Walk è quindi capace, nella sua dimensione di film quasi “domestico”, di generare una serie di implicazioni che coinvolgono tutto il globo e tutta la contemporaneità, andando a usare il cinema come una sorta di ponte fra l’ineffabilità dell’immagine digitale e le necessità politiche del mondo di oggi.
L’albero di trasmissione 2: la vendetta – Fabrizio Bellomo

Fieramente rozzo e senza fronzoli, sin dal titolo che rimanda al cinema di serie B, L’albero di trasmissione 2 – La vendetta è in realtà un ritorno del regista Fabrizio Bellomo alla Bari popolana e alla famiglia Ciliberti, soggetto del primo L’albero di trasmissione, che fu girato 11 anni fa. Il nuovo capitolo sorge da un’emergenza: lo sgombero della discarica/studio artistico di Simone Ciliberti, costretto ad abbandonare il lavoro di una vita a causa di una Bari che si fa sempre più gentrificata. Nient’altro che uno smartphone (Android, con tutta probabilità) e il microfono di un paio di auricolari per raccontare la progressiva cancellazione di un passato e di uno stile di vita non più in linea con le esigenze del contemporaneo.
L’influenza pasoliniana si sente profondamente nell’opera di Bellomo, dall’eleganza nella scelta delle inquadrature e dei movimenti di macchina, alla ricerca di una rivalsa spirituale delle classi sociali più basse. Tuttavia, Bellomo aggiorna lo spirito di Pasolini alle camere integrate e al montaggio amatoriale, come a creare la rappresentazione di un sottoproletariato digitale, un angolo di società escluso pure dall’infinito universo virtuale.
La Bari dei Ciliberti appare infatti come un luogo fuori dal tempo, che si scontra, ma mai viene affetto, dai cambiamenti della società e della Storia in generale. Il film sembra quasi disinteressato alla creazione di un conflitto, che sia di classe o generazionale. Invece, si pone l’obiettivo di dipingere, con gli strumenti e le tecnologie contemporanee, l’affresco di un mondo che forse scomparirà, ma mai cambierà. Questa commistione di nostalgia e rassegnazione genera ne L’albero di trasmissione 2 – La vendetta il suo fascino: il film è esso stesso uno scarto, un oggetto che ha perso di utilità, non così diverso dai rifiuti arrugginiti che vengono esposti come pezzi da museo nella discarica di Simone.
Il film di Bellomo è quindi un gesto cinematografico puramente anti-sistema (non esistono titoli di testa o di coda), che fa del suo essere fuori dagli schemi motivo di rivalsa estetica e morale.
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