Il lutto si addice ad Elettra – Mitopoiesi della telenovela
Uno degli elementi essenziali del mestiere di regista, quando non passa dalla scrittura in prima battuta del proprio lavoro, dovrebbe essere quello di mettersi al servizio prima di tutto del testo che intende plasmare in messa in scena; questo vale per qualsiasi forma d’arte che richieda una direzione – dal concerto sinfonico alla produzione cinematografica – e trova una sua completezza umana e carnale quando si parla di teatro. Per questo non si può che riconoscere a Davide Livermore l’attenzione e l’intelligenza di mettere il suo sé registico totalmente al servizio di un testo densissimo, lungo e teso come una corda di violino quale è Il lutto si addice ad Elettra, scritto nel 1931 da Eugene O’Neill e oggi proposto sul palco del Teatro Nazionale di Genova con una veste che ne intesse al meglio la carica emotiva. In tre ore e un quarto cariche di azione drammaturgica e fitte di racconto, la messa in scena dello spettacolo è un’attentissima e raffinata cornice che punta a valorizzare al meglio i toni – spesso cupi – che ne tingono la vicenda.

Il termine “cornice” non è scelto casualmente e parte proprio dal primo elemento che impatta il funzionamento stesso della messa in scena, della sistematizzazione attenta dei suoi spazi: la dimensione scenografica, con la sua squadratura a un tempo irregolare e nettamente geometrica, attiva già le coordinate di senso che ammanteranno il “tono di voce” con cui si darà il testo. Siamo dentro un “universo in scatola”, quasi un racconto televisivo dei primissimi anni del mezzo, contenuto in quel gigantesco 4:3 in cui si trasforma il grande palco della sala Ivo Chiesa. Al contempo siamo in un luogo in cui il bianco e il nero di cui si fregia la scenografia sono più che figure (a)cromatiche, ma polarità intorno a cui rimbalza il senso della vicenda, in tensione dalla primissima battuta fino all’ultimo applauso. Il lavoro di Livermore sugli spazi moltiplica le profondità senza nascondere i trucchi con cui ciò avviene, esplicitando una gradita artigianalità che diventa meccanismo interno della narrazione.

Il televisivo – così caro a Livermore in più produzioni, anche se non sempre dosato con la stessa efficacia – diventa qui una chiave linguistica vera e propria: intermezzato da frammenti radiofonici tratti da uno sceneggiato radio anni ’50 dallo stesso titolo che ne incornicia – ancora – l’avvenire, il testo è suddiviso in veri e propri episodi dalla struttura in crescendo che vanno a ricalcare con esplicita intenzionalità il funzionamento del “modello telenovela” tipico della televisione da orario pomeridiano o pre-serale, capace di prolungare vicende per migliaia di ore nel corso dei giorni, delle settimane e degli anni. L’uso di questo particolare modello seriale permette a Livermore di rinnovare costantemente l’attenzione del pubblico, di addensare i momenti cruciali del testo e, soprattutto, di ribaltare il rapporto di pastiche tra linguaggi, affidandosi a un modo di fare televisione che già si nutriva di un certo tipo di teatralità.

Proprio qui entra in gioco la scelta del cast formato da nomi altisonanti del mondo teatrale: da Elisabetta Pozzi – immancabile alter ego su palco di Livermore – a Paolo Pierobon, passando per Linda Gennari, Marco Foschi, Aldo Ottobrino, Carolina Rapillo e Davide Niccolini. Un elenco di personalità forti, riconoscibili, con volti segnati da ruoli e “modi” teatrali ben definiti. Anche in questo, il passo indietro di Livermore nei confronti dell’amalgama recitativo diventa un passo in avanti verso le esigenze del testo: ogni interprete nutre il proprio personaggio della propria professionalità che diventa quasi ingombrante, eccedente a tratti, imbastendo una base ruvida, una frizione latente, nelle interazioni tra personaggi che imprimono il proprio essere al di là di qualsiasi equilibrio generale del rappresentato. Anche questo è un aspetto che si ritrova nel linguaggio seriale da telenovela e la capacità di Livermore è quella di portare il tutto al di qua del margine parodistico, rendendo l’effetto efficace ed emotivamente intensissimo.

Certo il testo in sé ha una funzione cruciale nella riuscita dell’operazione. L’impianto esplicitamente mitologico dell’opera di O’Neill ammanta il racconto di un’atmosfera costantemente pericolosa, quasi brutale, mai accomodante. I personaggi sono scritti con un’amarezza interiore da costringere a passare le oltre tre ore a cercare una via d’uscita dall’orrore umano che si consuma battuta dopo battuta, senza speranza di successo. Questo rende il linguaggio della telenovela un motore mitopoietico capace di fagocitare una tradizione tragica antichissima – l’Orestea prima di tutto – e di estremizzare spudoratamente i temi psicanalitici che ne sono derivati – dall’Elettra del titolo fino ad Edipo e alla pulsione di morte di freudiana memoria – attraverso un veicolo discorsivo inquietantemente efficace.

La macchina scenica, oltre al puntuale lavoro visivo – fate attenzione all’attenta evoluzione dei costumi pensati “a coppie” man mano che i rapporti tra i personaggi evolvono – presenta un tessuto sonoro di Daniele D’Angelo che è realmente il cuore emotivo pulsante e portante dell’intera rappresentazione. Mai invasive, pensate per tenersi in un range timbrico piuttosto omogeneo, le musiche di Il lutto si addice ad Elettra guidano le reazioni degli spettatori, ne rompono il continuum percettivo, marcando con puntualità ogni piccola e grande trasformazione narrativa. Eppure, quello che potrebbe sembrare un lavoro di commento didascalico è in realtà una sorta di “sonar emozionale”, sintonizzato sull’apertura del canale uditivo degli spettatori chiamato in causa fin dalla primissima sequenza scenica.

Il lutto si addice ad Elettra messo in scena da Livermore è in sostanza un riuscito tentativo di porre in risonanza le differenti sostanze espressive che intessono l’esistenza di uno spettacolo. Nel dare atto al regista di esser riuscito a mettere con delicatezza il proprio marchio su un testo complesso, imponente e densissimo di significazione, ci si augura qui che questo sia l’inizio di un rinnovato corso produttivo per il Teatro Nazionale di Genova, dove lo spettacolo resta in scena fino al 26 ottobre.
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