
Our Name Will (Not) Be Forgotten in Time – A 30 anni da ‘Blue’ di Derek Jarman
In un libro recentemente tradotto in italiano, il filosofo Byung-chul Han, uno dei nomi più à la page del dibattito contemporaneo, ha affermato con forza come nel nostro presente (contraddistinto dalla logica di una autosorveglianza pervasiva, digitale, seducente e sempre più comodamente accettata), il gesto della rivoluzione, che aveva costituito il paradigma ultimo entro cui la politica novecentesca ancora riusciva a pensarsi, non sarebbe più possibile. Confezionata con una prosa quanto mai seducente, questa diagnosi sembra in effetti fotografare in modo preciso uno stato di cose, eppure non si può fare a meno di notare come non siano mancate, anche negli ultimi anni, manifestazioni più o meno violente di una rabbia collettiva, che si è tradotta certo non esattamente in una rivoluzione (in questo senso, forse, è davvero un orizzonte di senso ormai lontano) ma senza dubbio delle forme di protesta che pretendevano di imporre un deciso cambiamento alle storture del presente.
Penso per esempio al movimento Black Lives Matter, che anche nel pieno della pandemia ha saputo proporsi come una delle avanguardie attraverso cui ripensare il politico, oppure – in tempi appena meno recenti – all’esperienza di Occupy Wall Street, alla potenza destituente delle Primavere arabe o a molti altri movimenti simili. Non manca, insomma, nel presente contradditorio in cui viviamo – stritolato fra una crisi economica ormai sistemica e l’esigenza ormai improcrastinabile di fare i conti con un pianeta al collasso, una sorta di carica energetica insorgente, che ha la pretesa di voler ancora pensare il domani in modo diverso. Questa spinta che emerge in modo così forte nel presente ha senza dubbio una genealogia complessa, che qui non è possibile pensare di riassumere. Eppure, non c’è dubbio che uno dei momenti in cui per la prima volta sia stato possibile intravedere il potenziale politico dei corpi radunati nello spazio pubblico abbia avuto a che vedere con l’attivismo legato all’AIDS.
In questo contesto, come è stato efficacemente cartografato da Douglas Crimp in un importante volume (AIDS Demo Graphics, 1990), i media e le arti visive hanno occupato un ruolo fondamentale, perché è soprattutto nella sfera del visivo che la battaglia per la visibilità delle vite malate è stata combattuta. Se il regime eteronormativo, che ha visto nell’amministrazione Reagan e nella municipalità di New York i suoi alfieri, ha continuamente cercato di relegare i corpi infetti ai margini dello spazio pubblico ed estetico, le azioni di movimenti come ACT UP hanno sempre promosso una vera e propria invasione del sensibile, per riportare in primo piano le richieste di chi si vedeva privato di ogni diritto. Nella stessa direzione si è mosso anche gran parte del cinema queer, che proprio in quegli anni andava politicizzandosi (basti pensare ai film, purtroppo ancora oggi spesso ignorati, di Arthur J. Bressan Jr.).
Non c’è però film più radicale di Blue, ultima opera di Derek Jarman, nel mostrare come il medium cinematografico abbia la capacità di problematizzare, in senso certamente politico ma anche e soprattutto teorico, le questioni più rilevanti di un determinato contesto storico-culturale. La genesi dell’opera è piuttosto nota: Jarman, malato di AIDS e colpito da un’infezione agli occhi negli ultimi mesi della sua vita, diventa progressivamente incapace di vedere altro al di fuori di tonalità di blu. Una condizione di sostanziale paralisi per un regista che ha sempre fatto dell’effervescenza cromatica uno dei tratti distintivi del suo cinema (si pensi per esempio a Jubilee). Impossibilitato a dirigere un film in modo tradizionale, il regista mette lo spettatore di fronte alla sua medesima condizione: uno schermo completamente blu, che per 76 minuti accoglie le riflessioni di Jarman sulla vita, sull’amore e sulla sua condizione di malattia.

Il monocromo blu non è però soltanto l’immagine assente di una sensorialità ormai compromessa, ma anche il modo di dare corpo a qualcosa di tanto infinitesimale da essere invisibile. Questo oggetto minuscolo, ibrido fra vivente e non vivente, incapace di vivere senza un ospite eppure capace di uccidere il veicolo della sua trasmissione è – per gli anni Ottanta – una vera e propria sfida dell’immaginazione, che Jarman risolve rinunciando al regime figurativo. Quanto la sua scelta sia stata radicale possiamo forse comprenderlo pensando ad un virus più recente e a noi tristemente familiare, quel Covid-19 che ha costretto il mondo al lockdown ma che ha prodotto una vera e propria esplosione di immagini, elaborazioni digitali e algoritmiche di una particella mortale, la cui geometria sferica è divenuta simbolo di una serie di inscindibili contraddizioni.
Il testo di Jarman viene pubblicato a stampa qualche tempo dopo l’uscita del film, all’interno del volume Chroma: A Book of Colour (1995) in cui il regista ripercorre il suo rapporto con i colori. Nella parte dedicata al blu, che raccoglie la voce over del film, è possibile apprezzare in modo più preciso la grande coerenza delle osservazioni di Jarman, che hanno la straordinaria capacità di collegare il personale e il collettivo, il contemporaneo e lo storico in modi spesso imprevedibili.
Verso il finale c’è un passaggio che ho sempre trovato molto affascinante, in cui rivolgendosi direttamente ad un amato/amante, afferma «Our name will be forgotten / In time. / No one will remember our work / Our life will pass like the traces of a cloud». Siamo a poche righe dal finale e Jarman sembra richiudersi in una dimensione personale, intima (come conferma l’ultimissimo verso «I place a delphinium. Blue, upon your grave»), eppure sembra che il film intero contraddica questo assunto. Sfidando l’idea baziniana secondo cui la morte costituirebbe uno dei grandi infilmabili del cinema, Jarman affronta di petto l’idea paradossale di un’immagine della fine che corrisponde specularmente alla fine dell’immagine ed è in questa radicalità (estetica e politica) che si trova il segreto dell’immortalità di questo film.
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