
“La regola dei giochi” del Gruppo della Creta – Quando la tv diventa reale
“La guerra è pace, la libertà è schiavitù e l’ignoranza è forza”. È il testamento di un mondo squassato, al rovescio, quello che George Orwell ha consegnato ai suoi lettori nel romanzo distopico più celebre di tutti i tempi, 1984. Drammaturghi di talento e prestigio internazionale hanno riprovato, in anni recenti, ad adattarlo intuendone le potenzialità di impatto per la scena: si pensi al pluripremiato regista scozzese Matthew Lenton, con una versione fedele al testo, co-prodotta dall’Emilia Romagna Teatro Fondazione tra il 2018 e il 2019. O al lavoro del collettivo anglo-tedesco Gob Squad che ha debuttato nella stagione 2022 di Zona K al Teatro Out Off a Milano, e ancora al successo a Broadway dell’adattamento realizzato da Robert Icke e Duncan Macmillan pronto a diventare presto una serie tv. Si riconosce in questa tendenza ispiratrice un preciso spirito presente ad autori che hanno tradotto in drammaturgia le atmosfere diffuse in cronache letterarie imperniate sulla dittatura del pensiero unico, sullo sfondo di sopraggiunte catastrofi, emergenze stabili, episodi vessatori sistemici e mai accidentali.
Difficilmente capita la fortuna di vedere, in Italia, scritture originali ad opera di autori che con straordinaria lucidità e urgenza espressiva (un tentativo esclusivamente letterario, in questa direzione, è stato fatto nel 2021 da Sabina Guzzanti con il romanzo 2119. La disfatta dei sapiens). Autori che leggano nella problematicità dell’attuale stato di cose le ragioni che potrebbero aprire nuovi scenari di crisi o generare fratture negli attuali sistemi sociopolitici. Ed è questo il caso de La regola dei giochi, testo di Anton Giulio Calenda, affidato alla regia di Alessandro Di Murro, andato in scena il 4 marzo, replicando il giorno successivo, al NEST-Napoli Est Teatro di San Giovanni a Teduccio. Un progetto del Gruppo della Creta, compagnia residente del Teatro Basilica di Roma, che dal 2019 si è affermato su scala nazionale per aver supplito con un’innovativa proposta di scouting nel fertile circuito off alla complessa situazione dei teatri di ambiente romano. Al Basilica, dal 2015 il Gruppo della Creta è infatti impegnato in una ricerca artistica tesa alla contaminazione dei linguaggi scenici, tra la performance e le arti digitali, accogliendo e sostenendo la filiera di una creatività emergente, deflagrante, vitale.

Dal buio pattini al led, che si illuminano a intermittenza, disegnano un cerchio. Li indossa un personaggio, con un nome di pura fantascienza: è Google Amico (Amedeo Monda). E orbita intorno a un’installazione al neon che imprigiona il corpo di una giovane in gabbia (Laura Pannia), come se fosse il suo secondino, il torturatore assoldato dai poteri apicali per tenere a bada i riottosi sconfitti. Con questa immagine dalla singolare potenza evocativa si apre il primo atto dello spettacolo, “Ucronia”, che ha il dono di risuonare sin dai primi istanti nello spettatore per essere – purtroppo – così verosimile, e forse temibilmente predittivo (anche se scritto prima della pandemia).
“Noi stavamo con gli amici al bar a fare le cose di sempre e la tv… pensavamo non fosse reale. Accipicchia se era reale”. Ad annunciarlo è questa donna che non ha nome, classificata in quanto matricola codice 34H8I. Su una traccia house, racconta (quasi rappa) l’istituzionalizzazione di un regime inquietante che intimorisce per quanto è alta la probabilità che diventi (o, in alcuni casi, sia stato) reale. È la sua voce di Cassandra à rebours, in alcuni casi distorta dai software, che scaglia contro il pubblico tutte le notizie che gli servono per contestualizzare le coordinate di questo pianeta terra dell’era post-atomica. Il problema è che “i giochi” – di cui si parla – sono già fatti. La nuova riconfigurazione geografica (l’illustrazione in scena è di Laura Canali, cartografa di Limes) porta il nome di Santa Cattolica Unione Degli Stati Americani Del Mondo. Qui, in un anno indefinito, ha vinto il capitalismo, gli USA hanno fatto la guerra alla Cina, distruggendola, e ora questa appartiene – come la Russia – ad Amazon. Il potere è nelle mani delle multinazionali della Silicon Valley – Apple, Facebook, Amazon e Google in testa – che hanno comprato tutto e governano tramite algoritmi la legittimità del pensiero, lobotomizzando gli esseri umani, obliterati come bestie. L’Italia appartiene alla Turchia, ad eccezione di Roma scissa in due blocchi, le terre ghiacciate dei poli sono state disciolte così da dissetare l’Africa. Cuba è saltata in aria, i polmoni artificiali hanno rimpiazzato la foresta amazzonica, gli oggetti contundenti banditi e i colori unificati anche se ormai non c’è più luce, perché anche il sole è stato oscurato. Una Gilead che ce l’ha fatta, perché di libri in circolazione c’è solo la Bibbia, come accade nella parabola nazionalista descritta in The Handmaid’s Tale da Margaret Atwood. La resistenza arginata, persino il Papa è fuggito a Washington.

Però – attenzione – “da quando c’è stata la guerra si sta proprio bene”, dice la matricola, con uno stato d’animo – gioioso e sovraeccitato – che stride come evocazione dissonante intorno alla prigione metallica al neon che neutralizza le vittime della propaganda messa in campo dal totalitarismo neocontemporaneo. Ma – allerta Giuseppe De Ruvo, filosofo di Limes che interviene tra i due atti, in video – tra le mire espansionistiche di Putin e Tik Tok usato come strumento di dissenso (e infatti vietato in Russia) – il rischio domino delle derive estremiste è così alto da aver seminato anche nel cuore della Fortezza Europa il germe di indomabili derive estremiste.
Vittime i civili, che perdono nella guerra che non hanno scelto di combattere, ma anche i sottoposti in marcia al fronte per ordine dei capi, come nel secondo atto “Soldato”, costruito sul dialogo battente tra i due magnifici attori Matteo Baronchelli e Alessandro De Feo. Voce messa a tacere, censurata da un’autocratica polizia del pensiero che colpisce (anche i propri compagni, se manifestano i dubbi dei dissidenti) ed esercita soprusi a costo di ripristinare il controllo ideologico. Come se la forza di un’idea potesse essere imballata in un pacco, e poi morire.
Al contrario, la persistenza dell’eco di un’opera dopo oltre 70 anni dalla sua pubblicazione attesta, invece, la necessità di un esercizio di resistenza all’ideologia che avalla il mito del nemico (ogni volta diverso: i social del metaverso, i migranti, i poveri, gli afrodiscendenti…). Orwell scrisse 1984 in piena Guerra Fredda e a quell’opera si torna ogni volta in cui ci sembra che il mondo abbia perso la bussola. Da quando è tornata in Europa, soggiacente all’incubo di una minaccia nucleare, siamo davvero sicuri che con la guerra si stia meglio? È la stoccata finale di uno spettacolo che vuole fugare ogni dubbio, perché neanche la fantasia resterà dove tutto è stato distrutto.

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