
Inside Ocean Space – Intervista a Markus Reymann
Tra le navate della chiesa sconsacrata di San Lorenzo, incastonata tra Rio de Sant’Antonin e Campo San Lorenzo, nel Sestiere di Castello a Venezia, è possibile immergersi senza trattenere il respiro. Qui trova residenza permanente Ocean Space, centro di ricerca transdisciplinare anfibio e multiforme – sospeso tra laguna e terraferma, arte e scienza – che promuove la conservazione e la protezione degli oceani. Mentre tutto brucia e l’orizzonte si fa sempre più opaco e bituminoso, Ocean Space si immerge nelle profondità delle acque, dalle abissali profondità oceaniche alle secche della laguna veneta, e del contemporaneo, ospitando progetti e mostre, programmi pedagogici e produzioni artistiche che danno voce e corpo all’oceano in quanto testimone e archivio naturale di storie coloniali fra passato, presente e futuro. E a raccontarle sono microrganismi e alghe che coesistono sin dagli inizi dell’evoluzione, insieme alle rocce, le onde e la terra che conserva la memoria del nostro pianeta. A lanciare il progetto, nel marzo 2019, è l’organizzazione TBA21–Academy, fondata nel 2011 da Francesca Thyssen-Bornemisza insieme a Markus Reymann, direttore di Ocean Space, che ci ha concesso questa intervista.

Markus, qual è la relazione tra lo spazio della Chiesa di San Lorenzo e il progetto di Ocean Space?
La Chiesa di San Lorenzo rinasce come centro globale per l’educazione critica, la ricerca e l’azione oceanografica attraverso l’arte dopo il restauro concluso a inizio 2020 – promosso da TBA21- Academy insieme al Comune di Venezia – che ha permesso la riapertura al pubblico dopo più di trent’anni. L’enigmatico spazio della Chiesa si snoda attorno a un rarissimo altare bifacciale con tre aperture, realizzato dallo scultore Girolamo Campagna, che crea due navate separate dai soffitti altissimi. Quando ci si immerge e si guarda verso l’alto è possibile osservare i fasci di luce colpire la superficie dell’acqua e penetrare in profondità. La luce del sole trafigge le altissime finestre di San Lorenzo, poste a più di venti metri dal suolo, infrangendosi in frammenti liquidi che si combinano in un’atmosfera subacquea, creando contrasti e giochi di luce di rara bellezza.
A San Lorenzo c’è una conversazione tra il contemporaneo – con le sfide e le urgenze del presente – e la storia di Venezia: le mura e la fondamenta di San Lorenzo sono intrise del tessuto storico e sociale della città. Così come la luce solare si rifrange, plasmata, attraverso le vetrate, Ocean Space è un ecosistema culturale che promuove una relazione più profonda con l’Oceano attraverso il prisma dell’arte.
Da milleseicento anni Venezia è crocevia di idee, filosofie, religioni, merci, spezie, tessuti. Similmente, Ocean Space vuole essere un porto di scambio e di incontro, ma soprattutto di scontro. Venezia ha poi un senso assoluto, che risiede nella sua relazione intrinseca con l’acqua. Un rapporto che nel tempo si è evoluto e trasformato fino a ribaltarsi tanto sul piano urbanistico quanto su quello ecologico. L’osservazione critica della regolamentazione capillare dell’acqua – l’acqua era ovunque e ovunque esisteva accesso all’acqua, mentre oggi è vincolata in una griglia di accessi ai canali e fermate dei vaporetti – è speculare alla riflessione sulla città come zona di guerra.
Venezia è l’icona dell’innalzamento del livello del mare in Europa: l’Olanda e i Paesi Bassi, che sono sotto il livello del mare, hanno creato un’identità nazionale sulle dighe, ma Venezia è la linea del fronte – delimitata dalla barriera del MOSE – della guerra contro il cambiamento climatico, e quindi contro noi stessi. Questa città galleggiante destinata ad affondare si configura come un vero e proprio “monumento all’Antropocene”. Inoltre, Venezia riflette su sé stessa e sul mondo attraverso la lente della Biennale, ogni due anni. E lo fa più a lungo di qualsiasi altra città su questo pianeta. Tutte queste ragioni la rendono luogo perfetto per testare come l’arte e la cultura possano essere agenti trasformativi all’interno del quartiere, della comunità, della città.

Qual è il ruolo dell’arte in un mondo che brucia?
Siamo diventati le storie che ci stiamo raccontando. Tutto converge nella fine, e proprio per questo dobbiamo trovare nuove narrazioni. È molto difficile immaginare il mondo in cui vogliamo vivere perché siamo costantemente bombardati dall’incombenza della catastrofe, dall’allarme dell’emergenza, dalla minaccia della scarsità e della scomparsa. Soffriamo di una crisi di immaginazione, e di una carenza di empatia. Ma le arti sono in grado di affrontare e risignificare entrambi questi vuoti. Gli artisti hanno il potere di immaginare altri futuri, visioni di mondi e realtà possibili. E questo potere immaginativo non riguarda solo la crisi climatica, ma tutti le questioni di giustizia sociale e ambientale.
Sono innumerevoli gli sforzi compiuti quotidianamente per la concessione agli ecosistemi dei diritti di personalità e per il riconoscimento dei crimini ambientali: in ambito giuridico questo si traduce in una responsabilità legale delle nostre azioni nocive, e nella derivante possibilità di ripercussioni legali. A un maltrattamento segue una punizione. Ma d’altra parte dobbiamo considerare l’abissale scarto culturale nella comprensione della propria posizione nel mondo e della propria responsabilità verso il luogo in cui si abita: basti pensare che le terre occupate dalle popolazioni indigene detengono l’80% della biodiversità mondiale. Né tantomeno possiamo prescindere dalla consapevolezza che tutto il dibattito sul cambiamento climatico e sulla sua regolamentazione non può esimersi dall’interesse economico: parliamo di valore intrinseco, ma anche di risorse, innovazione, servizi necessari alla prevenzione della distruzione e quindi sempre di soldi.
Non si possono escludere dalla riflessione gli automatismi culturali e biologici sistematicamente insiti nella civiltà capitalista: il meccanismo neoliberale identifica i cittadini come consumatori le cui scelte democratiche si esercitano tramite l’acquisto e la vendita, in un processo competitivo che premia l’individualismo. Il singolo ha la responsabilità di uscire dalla propria individualità e pensarsi come parte di una società: solo così può contribuire a costruire una coscienza critica collettiva, che a sua volta ha il potere di esigere dai governi i cambiamenti di cui abbiamo bisogno. Nella grande narrazione della catastrofe, l’arte è il medium che ci permette di sviluppare l’empatia. L’arte ci parla a livello intellettuale. A livello poetico. A livello emotivo. A livello fisico. Ci rende capaci di guardare alle cose da una diversa angolazione, ci offre punti di vista che mai avremmo considerato: ci trasporta oltre, non solo in avanti.

Pensi all’incontro tra arte e scienza più come un “crocevia” (l’inizio di nuovi percorsi), un “ponte “(qualcosa che permette il passaggio, la trasmissione di un messaggio), o come un” orizzonte” (qualcosa verso cui allungarsi, una destinazione)?
Un tempo la distinzione tra arti e scienze non era così netta: basti pensare a Leonardo o Galileo. Non c’era assolutamente nessuna sfida che potessero esserci scienziati e artisti e politici allo stesso tempo. L’incontro tra arte e scienza per me è un inizio per ricominciare a abbattere le barriere tra le discipline. Solo oltrepassando i confini possiamo davvero sentirci parte di una comunità. Quando siamo da soli, con le nostre esperienze e le nostre diverse e distinte capacità, rischiamo di sapere al contempo troppo e troppo poco, e per questo soccombiamo alla disperazione o alla speranza ingenua, e nessuna delle due ha un potere realmente trasformativo.
Più che entrare effettivamente nella posizione di agire – attraverso la promozione di una precisa attività di rigenerazione e restauro – non vogliamo dire alle persone fare: Ocean Space intende avviare un’esperienza formativa permanente che permetta ad ognuno di sentirsi parte attiva e offrire un contributo concreto per la salvaguardia del pianeta. Ocean Space è un catalizzatore tra la la capacità di reimmaginare il nostro presente e il nostro futuro, e l’azione.
Torniamo all’Antropocene: l’arte è forse il linguaggio più “umano” per parlare di forme di vita “non umane” che necessitano urgentemente di difesa e azione…
La vera domanda è: cosa significa essere umani? Dobbiamo traslare il perno della questione su noi stessi: cosa significa essere umani? Siamo fatti di acqua, batteri, virus, funghi: se dovessimo inserire i nostri corpi in una macchina per il sequenziamento del DNA, solo una piccolissima parte di noi risulterebbe umana. Siamo piuttosto individui, ciascuno diverso dall’altro, biologicamente e non solo. Senza voler romanticizzare un tema così delicato e complesso, il punto cruciale di tutto questo discorso sta nel comprendere noi stessi in relazione al mondo, non al di fuori del mondo, e di conseguenza il reale valore della relazione – o della sua mancanza – con l’ambiente che abitiamo. Questo è il cambiamento necessario e drammatico. Abbiamo bisogno di cambiare radicalmente il nostro comportamento su questo pianeta per rendere possibile la sopravvivenza a lungo termine della nostra specie. Gli artisti ci aiutano a immaginare realtà e modi di pensare radicalmente diversi, da cui tutti noi possiamo trarre ispirazione.

Da questa intervista nasce il pezzo Ocean Space stays with the Trouble, Ipotesi per un’ecologia umana, parte del numero cartaceo Brucia tutto di Birdmen Magazine, in vendita sul sito di Industria&Letteratura
Immagine di copertina: “Territorial Agency: Oceans in Transformation”, vista della mostra ad Ocean Space, Venezia, 2020. “Territorial Agency: Oceans in Transformation” è commissionata da TBA21ーAcademy e coprodotta da Luma Foundation. Foto: gerdastudio © TBA21–Academy
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