
Quando un’opera d’arte influenza la vita – Liv Ferracchiati rilegge il Platonov di Čechov | Finalisti Premi Ubu 2021
In vista della 43esima Cerimonia dei Premi Ubu che si svolgerà il prossimo 13 dicembre al Cocoricò di Riccione, nel decennale della morte di Franco Quadri, vale la pena ritornare su uno dei 5 spettacoli quest’anno finalisti nella categoria ‘Nuova scrittura drammaturgica’.
L’interrogativo che pone lo spettacolo in questione è il seguente: «Siete mai stati sull’orlo dell’esistenza?». Si tratta di La tragedia è finita, Platonov, giunto in una recente tournée autunnale al Piccolo Bellini di Napoli dal 2 al 7 novembre, opera in cui il regista e autore Liv Ferracchiati ritorna per il tramite di Čechov sulla questione dell’identità, già tema fondativo di una sua fortunata Trilogia teatrale degli ultimi anni (Peter Pan guarda sotto le gonne; Un eschimese in Amazzonia; Stabat Mater).

Prodotto dal Teatro Stabile dell’Umbria in collaborazione con Spoleto Festival dei Due Mondi, nonché menzione speciale alla Biennale Teatro 2020, la riscrittura drammaturgica di Ferracchiati ripropone in una fresca partitura i dilemmi imposti dall’adesione a una definizione identitaria modale, seguendo i passi dell’imbrigliato personaggio di Čechov, le cui vicende si potrebbero paragonare a quelle vissute dai due più emblematici protagonisti della drammaturgia mondiale, Amleto e Don Giovanni. Con il primo Platonov condivide l’elemento del dubbio, precursore di morte annunciata: non più «essere o non essere», bensì come essere felici, quando si sa già di non poter sfuggire a se stessi per vivere in maniera significativa. Con l’impenitente traditore, Platonov ha in comune il vizio in termini amorosi, così da dire che «mentre a Cesare fu dato il Rubicone, a me il problema della donna».
La verità è che, tra tutte le opere di Čechov, da Il Gabbiano a Il Giardino dei Ciliegi, il nome di Platonov non è d’altronde il primo a balenarci in testa. Forse perché, sin da quando è stato concepito intorno al 1880, si trattava di un testo destinato a morire prima della scena. Platonov, nella forma incompiuta e nel contenuto intricato, è però un testo che parla di resistenza. E a suggerirci questo è proprio la lettura metateatrale che Ferracchiati introduce sulla scena, dove è presente in qualità di inedito lettore dell’opera, conferendo alla sorgente letteraria – qui destrutturata – la possibilità di una problematizzazione più estesa delle relazioni tra gli uomini e il proprio tempo. È come se per la prima volta il protagonista avesse la possibilità di difendersi in un tribunale del suo io in cerca di redenzione, entrando in conflitto con la funzione che lo relega da testo a una dimensione psicologica di inattitudine e cinica inerzia. È un Platonov che sembra conoscere a menadito L’inconveniente di essere nati di Cioran, o il nichilismo abietto dei personaggi di Svevo, le paralisi narrate da Joyce e l’indeterminatezza moderna di chi sente di aver sbagliato i propri desideri.

Gli amori mondani di Platonov, interpretato con sapiente ironia da Riccardo Goretti, ruotano intorno alla meccanica di un tradimento dichiarato. Il personaggio sa che la propria coazione a ripetere è rovinare le donne che incontra lungo il proprio cammino: corrompe l’animo della più pura (Francesca Fatichenti veste i panni della collega insegnante), gioca alla lussuria con la più scaltra femme fatale (Matilde Vigna è Anna Petrovna), coltiva la speranza utopica di una passione ideale con la donna che non può dimenticare, Sofja (che Petra Valentini – candidata agli Ubu tra le attrici under 35 – nel suo monologo caratterizza facendo il verso a una certa nostra esponente politica di nome Giorgia); e nel frattempo resta invischiato nelle insidie di un matrimonio finito con Sasha (una credibilissima Alice Spisa), «anche se fosse solo per tenerla come infermiera». Da nessun confronto esce indenne, nessuna donna lo assolve dalla colpa: ognuna sbatte – non solo letteralmente – i piedi per terra. Ed è per questo che nella discesa finale Platonov farà appello al suo lettore indulgente per trovare una via di fuga.
Come Narciso che scruta la propria immagine riflessa, e non a caso sul programma di sala si vede in una linea stilizzata Ferracchiati osservare Platonov nella medesima posa dipinta da Caravaggio, il fitto dialogo tra lettore e personaggio diviene specchio di paure, inquietudini e miserie condivise, ma allenta la presa in momenti di improvvisazione, buio scenico e sorrisi strappati: quando, ad esempio, viene etichettato col nome di valzer ‘Up & Down‘ di Billy More. «Ho già 27 anni e prima dei 30 non prevedo un cambiamento»: grazie a questa frase aurorale, che Ferracchiati confessa di aver custodito come mantra nella sua reale esperienza di lettore del dramma, da regista riesce nell’impresa di dirigere una creazione giudicata irrappresentabile, convoglia su due binari scrittura e vita, scioglie le catene del personaggio rassegnato a essere l’impedimento di sé. Stravolgendo il punto di vista, quando il lettore da figura esterna all’azione comincia a fare più spesso incursione nello spazio scenico rettangolare destinato ai soli cinque, colloca il tormento di Platonov in una dimensione di empatia, mostra le analogie tra la debolezza dell’uomo incapace di scegliere una donna tra quelle che si offrono e l’indecisione recidiva di chiunque sia obbligato a una scelta categorica, e non fluida, tra l’apollineo e il dionisiaco.

Questo nuovo Platonov sa che «tutte le storie finiscono bene, tranne la mia». Teme di non avere scampo dall’autodistruzione che lo attende, così che all’inconsolabile figura dell’opera letteraria che, in senso bernhardiano, soccombe già nei primi minuti della rappresentazione, si sovrapporrà nell’epilogo la morte di un altro Platonov inteso come immagine interiore, materia umana relazionale e organica, non solo fatto d’inchiostro, nel cui caotico dramma Ferracchiati traghetta – attraverso uno stile recitativo asciutto ma deciso – la sua storia autentica. Non si fallisce perché non si è in grado, ma perché gli obiettivi che ci si è posti sono, semplicemente, sbagliati. Ed è allora che tutto il mondo di Čechov risale in superficie arricchito di una contemporanea poeticità. Stavolta Platonov muore sì, ma per così dire in pace, cadendo in duello con il lettore, solo perché quest’ultimo ha finito di leggerlo. Sopravanzano sulla scena le donne che, nel fruscio della carta che ora indossano (costumi di Francesca Pieroni e Lucia Menegazzo), consegnano al pubblico la pagina di un nuovo inizio, di altre luci (il disegno è di Emiliano Austeri), strappando gli abiti che le hanno incastonate nel loro ruolo di personaggio. Intonando ‘Ciao Ciao’ di Francesco De Gregori in una versione ancora più amara (suoni di Giacomo Agnifili), dicono che «andarsene era scritto». La tragedia è davvero finita, e confluisce nell’accettazione ultima di se stessi, quando come per miracolo la lettura di un’opera d’arte ci offre la chiave per capire chi siamo e iniziare a vivere come si vorrebbe. Ma soprattutto lasciare una traccia per un nuovo destino teatrale ad alcune storie rimaste altrimenti sepolte.
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