
Un lupo mannaro americano a Londra – 40 anni di un cult
Chi scrive era nella giuria di Venezia Classici quando al Lido venne presentato il restauro di Un lupo mannaro americano a Londra (1981). Lo vedemmo nella Pasinetti, la più piccola, quella destinata alle proiezioni stampa. C’era fin da subito un’atmosfera da sabato sera in provincia. Avrebbe potuto essere una sortita al Drive in, oppure una scena di Gremlins (1984), e mancavano solo i popcorn. Ventisei giovani menti appassionate di cinema e prossime alla laurea. In agenda una serie di visioni da far girare la testa. Di fronte, sullo schermo, il più pop dei titoli proposti. All’epoca sapevamo che ci saremmo divertiti: non solo perché molti l’avevano già visto, ma perché avevamo avuto il tempo di fare gruppo dopo i primi giorni di diffidenza reciproca. Eravamo caldi, carichi e pronti. John Landis, quindi l’autore di Animal House (1978) e The Blues Brothers (1980). Noi avevamo circa l’età che il regista aveva quando li girò, e tutto ci sembrò molto naturale e semplice. Mettemmo quindi da parte ogni illusione di obiettività e ci godemmo lo spettacolo.

Buio in sala. Bobby Vinton canta Blue Moon mentre scorrono i crediti sullo sfondo di una brughiera che più inglese non sarebbe possibile. Due ventenni americani giungono ad un incrocio su un camioncino pieno di pecore e da lì si incamminano con gli zaini in spalla. Passa qualche minuto e già ci troviamo nel pieno dell’azione, al pub “The Slaughtered Lamb” (t.l. L’agnello macellato), la cui insegna mostra una testa di lupo su un palo. Rapido e inquietante scambio con la gente del posto. Un pentacolo sul muro, simbolo stregonesco che apre quindi al sovrannaturale. David e Jack lasciano la locanda con una brutta sensazione, cui presto segue l’inevitabile tragedia. Una bestia, qualcosa di mostruoso, uccide Jack e assesta una zampata sull’altro, atterrandolo. Gli abitanti giungono per abbattere quello che poi si rivela essere un uomo. David riesce a dargli un’occhiata ma, confuso, perde immediatamente i sensi. Ed ecco i primi pazzeschi 17 minuti di un film che nella storia del cinema è considerato all’unanimità rivoluzionario.
Questo perché Landis è sì contento che faccia ridere, ma voleva soprattutto che fosse terrificante. «Non è una storia felice, è un film horror, e anche piuttosto tradizionale», ha raccontato. Infatti, ai suoi occhi, non sarebbe altro che la versione contemporanea di un classico dell’orrore hollywoodiano. Il modello principale è naturalmente L’uomo lupo (1941) con Lon Chaney Jr, ma in un certo senso si impone anche Il cervello di Frankenstein (1948), la prima pellicola in cui Gianni e Pinotto incontrano i mostri della Universal. Essendo la cinefilia della generazione di Landis (1950) prossima al postmoderno, non distingue più la produzione d’arte dal B-Movie, condensando e mescolando ciò che più ha influenzato il suo sguardo. Non a caso il cineasta di Chicago cita fra le fonti persino Il fascino discreto della borghesia (1972) di Luis Buñuel. Insieme al teatro pirandelliano, quel capolavoro avrebbe infatti ispirato la sequenza del sogno nel sogno quando il protagonista, ancora in ospedale, non distingue più ciò che è fantasia e ciò che è reale.

Un lupo mannaro americano a Londra trabocca da una parte di cultura popolare e dall’altra di riferimenti al presente. I fumetti con Pecos Bill, la letteratura tramite l’Heathcliff di Cime tempestose, la favola Jack e il fagiolo magico (con la luna piena incombente, David recita allo specchio la formula che in italiano suona “ucci ucci, sento odor di cristianucci”). Per non parlare della musica: I due amici, nella brughiera e sotto la pioggia, sognano il sole italiano e cantano Santa Lucia nella versione di Elvis Presley, il quale peraltro aveva inciso anche Blue Moon. Insomma, discorsi se ne potrebbero far tanti. Quanto all’attualità, Landis ha ricordato che le riprese si tennero a Londra nel 1981, mentre aveva luogo la Rivolta di Brixton, e che la scena culminante a Piccadilly Circus andrebbe vista oggi come una capsula del tempo perché mostra una città ormai scomparsa. Il film è a tutti gli effetti una produzione britannica perché inglese era gran parte della squadra. La Universal, da par sua, acquistò i diritti di distribuzione per gli Stati Uniti.

Ad ogni modo, l’anteprima americana non diede i risultati sperati. «Il pubblico non era molto giovane – ha spiegato Landis -, in più usciva dalla prima di un film con Walter Matthau e Glenda Jackson e non era preparato!». Su suggerimento del regista ne venne fatta un’altra poco fuori New York. La sala era frequentata principalmente da ragazzini, quindi fu un successo. Un lupo mannaro americano a Londra ha dalla sua la forza di effetti speciali mai visti prima: Rick Baker riuscì a inventarsi un modo per realizzare la trasformazione del protagonista senza stacchi di montaggio visibili. Citato da tutti e da subito (Michael Jackson, Dylan Dog, Edgar Wright, The Walking Dead, Zack Snyder), il film oggi è un cult per almeno due generazioni. E continuerà ad esserlo per molti decenni a venire, anche grazie al “nostro” restauro. 40 anni dopo, l’unico rammarico è che non sapremo mai come sarebbe stato il film con Dan Aykroyd nel ruolo di David e John Belushi in quello di Jack, come avrebbero voluto i dirigenti della Universal.
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