
Il nome della rosa: una serie che mancava
Il densissimo romanzo Il nome della rosa, esordio di Umberto Eco del 1980, ha ispirato una altrettanto densissima storia di produzioni multimediali, attraverso la radio, il fumetto e pure il videogioco, con un sempre grande debito verso lo splendido film omonimo del 1986 diretto da Jean-Jacques Annaud. Tanto che è lecito chiedersi se questa rete di ispirazioni scaturisca solo dal libro, oppure se la sua versione cinematografica sia stata altrettanto determinante nel modellare la nostra immagine della narrazione. Insomma, la serie omonima ideata e diretta da Giacomo Battiato doveva in primo luogo districarsi tra questo dualismo libro-pellicola e decidere da quali binari smarcarsi o quali vie già battute continuare a percorrere. Quale posto è riuscita a ritagliarsi la serie Il nome della Rosa nel mondo degli adattamenti suoi fratelli?
Innanzitutto, il contenuto del romanzo ben si sposa con la struttura dell’arcinota descrizione della biblioteca abbaziale. Il thriller che ruota attorno al fantomatico secondo libro della Poetica di Aristotele s’immerge nel genere storico – ma riemerge di continuo grazie ad anacronismi ricercati – e, in forza di un continuo mosaico di citazioni da trattati medievali, si distende verso il filosofico e il teologico. Lungi dall’essere confinato nell’epoca in cui è ambientato (siamo nel 1327), è anche una ricollocazione del personaggio di Sherlock Holmes in chiave monacale, ma il suo Moriarty è un savio cieco che domina un labirinto di libri che ricorda La biblioteca di Babele di Borges, a sua volta non vedente e chiamato Jorge proprio come il benedettino. Il cuore del romanzo è una lettura post-moderna della risata e dell’ironia, tema che Eco riproporrà anche nelle successive opere. Di fronte all’impossibilità di trasporre tutti i piani di lettura appena accennati, il film di Annaud si era concentrato per lo più sulla dimensione del giallo, riuscendo a ricreare un’atmosfera fedele a quella del libro, dando un nutrito assaggio del tema del riso e trovando una sua propria identità nella sublime fotografia di Tonino Delli Colli. Il compromesso della pellicola era stato quello di asciugare l’opera di Eco, cogliendone i tratti più squisitamente cinematografici.
Come forse si nota, Il nome della rosa era un prodotto in qualche modo profetico, già pronto dal 1980 per la serialità. E lo è perché al fianco di un thriller appassionante per il pubblico vi sono più e più riferimenti, richiami impliciti e percorsi inesplorati, un soggiacente non detto in attesa di riempimento o interpretazione. In quegli spazi, la miniserie Rai si è inserita con intraprendenza: ecco che gli eretici di Fra’ Dolcino da Novara hanno un volto e più di un flashback dedicato, tanto da costruire una sottotrama costante dell’opera, un esplicito richiamo a un capitolo di dialoghi che il cinema non avrebbe mai saputo (voluto) restituirci. La storia si risolve anche grazie a quel che resta dell’eresia dolciniana, in maniera parzialmente originale rispetto al libro. Ed è con un’altra innovazione ancora che la serie invece si apre: Adso da Melk ha un passato ben delineato, lo si vede dismettere i costumi della nobiltà e vestire l’abito del novizio benedettino, e ciò ci permette di relazionarci meglio con il personaggio che accompagnerà Guglielmo (felice la scelta di John Turturro) e racconterà le incredibili vicende dell’abbazia.
La serialità era quindi il tassello mancante nell’universo multimediale scaturito dal romanzo: l’estensione a minuti quattrocento della potenza di fuoco di un adattamento dà un assaggio più ampio al caleidoscopio delle pagine originali. E, di fatto, così è stato. Il nome della rosa di Battiato è un prodotto pieno e che riesce a restituire allo spettatore un colpo d’occhio sulla ricchezza del soggetto, riuscendo comunque a ritagliarsi una dimensione originale con molte trovate narrative non presenti nel romanzo. Con ciò non si vuol dire che sia una produzione da promuovere a pieni voti: nel suo percorso arriva al traguardo non senza inciampare più o meno vistosamente. La fotografia risulta gradevole ma troppo piatta, la narrazione talvolta incespica e, più in generale, c’è la costante ricerca superflua e quasi stucchevole di un’americanità non necessaria, quando invece sarebbe gradita una maggior emancipazione stilistica nel tentativo di incontrare il gusto internazionale.
Tornando ai punti di forza, la serie Rai dà prova di sapere anche restituire certi dettagli del romanzo che lo spazio del cinema non può contemplare. La produzione italo-tedesca recupera più personaggi è dà loro uno spazio vitale di cui tutta l’opera beneficia, con continue piccole citazioni a quegli intricati dialoghi teologici che accompagnano i lettori. Tutta l’ambientazione è più viva e sfaccettata, e possiamo avvertirla ben inserita nel contesto storico, abitata vivacemente dai monaci e dalle loro occupazioni e non chiusa rispetto al mondo cristiano in continua evoluzione. Ne beneficia in particolare Jorge, un personaggio decisamente più profondo qui che non rispetto al film: non più un odioso e monocromatico malvagio, ma un’autorità con cui confrontarsi, specie nel bel dialogo che precede il rogo dell’abbazia.
Infine, c’è stato spazio per una sorpresa che i lettori avranno apprezzato: un richiamo esplicito alla vera ragione del titolo del romanzo. Nel finale, dove Annaud aveva semplificato snaturando, facendo corrispondere la rosa alla popolana dal nome ignoto, Battiato decide invece di darci un assaggio della variazione echiana del motto nominalista di Bernardo Cluniacense che pone fine anche al romanzo.
Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus
(La rosa primigenia esiste solo nel nome, possediamo soltanto nudi nomi)
Come in Eco, così si chiude la miniserie, con la considerazione che tutto ciò che ci resta – non solo la biblioteca e i suoi libri, ma la Storia stessa – sono solo nomi: del mondo non possediamo che questo. Un piccolo sigillo che ancora una volta segnala che la vasta complessità del romanzo poteva respirare solo nell’ampio spazio della serialità.
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