‘Still Alive’ di Yasumasa Konno è il film vincitore del Torino Underground Cinefest
Still Alive, diretto dal regista giapponese Yasumasa Konno, è stato premiato come miglior lungometraggio del Torino Underground Cinefest. Un appuntamento che anno dopo anno riscontra un successo crescente, favorendo il difficile dibattito sul cinema indipendente — anche attraverso retrospettive che valorizzano cineasti locali rimasti sottotraccia per troppo tempo, come quella che in questa edizione si è scelto di dedicare al torinese Daniele Gaglianone — nella dimensione ravvicinata, spontanea e realmente partecipata del piccolo CineTeatro Baretti, cuore artistico pulsante del quartiere San Salvario. Il rischio, quando si parla di “underground”, è sempre quello di spezzarne in qualche modo la natura stessa portandolo, appunto, troppo in superficie. Ma in un panorama mediatico e festivaliero in cui i grandi eventi e i grandi nomi non permettono a certo cinema di respirare, una kermesse come quella che a Torino è giunta alla sua dodicesima edizione è più urgente che mai, sempre nel rispetto dello spirito — espressivo, tematico, ma soprattutto produttivo e distributivo — realmente indipendente che si trova negli oltre cento film selezionati, tra documentari, lungometraggi e cortometraggi di finzione.

Still Alive è un film che sembra restituire perfettamente una reale idea, tra le molteplici possibili, di underground contemporaneo, prodotto con il minimo indispensabile, un minutaggio anticonvenzionale — poco più di un’ora — e un’estetica liminale in cui il basso budget non soltanto è dinamica produttiva ma determina sfacciatamente e orgogliosamente l’aspetto visivo del film. È la malinconica storia d’amore e di fantasmi tra una madre, Mikako (Megumi Kobashi), e la piccola figlia Ami (Halo Asada), separate dalla dimensione di un lutto che si configura in modo del tutto ambiguo. La mamma, defunta da anni, continua a permanere nella vita della figlia affacciandosi quasi immobile dallo schermo di un vecchio televisore che le permette di parlare con Ami, come un simulacro che la bambina può portare con sé, perfino a scuola. La soglia tra queste due dimensioni, un al di là virtuale — over there — e un al di qua — quell’here ripetuto così insistentemente nel film — è quasi impalpabile, denunciata soltanto dall’oggetto scatola-televisore.

Appropriandosi dell’immaginario disturbante delle Backrooms internettiane e di quei contesti visivi ispirati dalla nostalgia per una tecnologia arcaica di inizio anni Duemila, Still Alive si misura con una retro-fantascienza spogliata di qualsiasi elemento spettacolare, costruendo per sottrazione una realtà ordinaria ma surreale, pacifica eppure angosciante, vagamente familiare e al contempo straniante. Oltre ai protagonisti, i pochi individui che popolano Still Alive sembrano fisicamente costretti a movimenti rigidi e controllati, scambiando tra loro poche e fredde battute.
Vi è infatti una sottile vena horror psicologica tutta giocata su relazioni ambigue, interazioni sospese in uno spazio-tempo che si trova ai margini del mondo, ambientazioni asettiche e monotone, un’atmosfera nostalgica e onirica a bassa definizione che dialoga con l’estetica di internet e dei videogiochi più che con la storia del cinema. Tanto che, per esempio, un personaggio del film viene fatto sparire attraverso porte e stanze misteriose, in un modo che rimanda piuttosto esplicitamente alla logica del NoClip, espressione che nel linguaggio videoludico indica quegli spazi virtuali in cui si accede per sbaglio, a causa di un glitch o del raggiro delle regole del gioco da parte del giocatore.
La svolta narrativa del film coincide con il rovesciamento del mondo che ci era stato introdotto e delle sue dimensioni parallele, anticipando un finale che nel suo minimalismo estremo trova finalmente l’emozione. Mostrando la fragilità di un mondo in cui tutto, anche un genitore o un figlio defunto, diventa infinitamente replicabile, Still Alive di Yasumasa Konno rispecchia quella condizione tutta contemporanea in cui l’eccessiva illusione di vita che attribuiamo alle immagini rischia di rubarci l’umanità del dolore.
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