Il ritorno dei Rockets e la rinascita della Space Opera
Arrivati sulle scene a metà degli anni ’70, i Rockets hanno rappresentato per almeno un decennio la traduzione musicale di un immaginario in espansione e in consolidamento. La Fantascienza stava diventando matura, con un respiro narrativo figlio dei migliori autori – su carta e al cinema – e con la spinta di veicolare messaggi e tematiche perfettamente integrate con un immaginario multisensoriale finalmente in grado di farsi rappresentare. E in quel grandioso decennio la band francese ha saputo far credere autenticamente che cinque alieni fossero scesi sulla Terra per tradurre in musica quello che George Lucas stava portando su schermo – i Rockets aprirono la proiezione di Episodio IV al cinema Rex di Parigi – e Moebius tra le vignette di strepitosi fumetti (non a caso Métal Hurlant era una testata francese). Oggi, a distanza di 45 anni dal successo del disco Galaxy, i Rockets tornano stabilmente sulle scene con un progetto nuovamente consapevole e maturo, il disco The Final Frontier presentato dalla band in un tour conclusosi il 19 febbraio a Genova al Teatro Nazionale.
È un ritorno musicalmente molto consapevole quello dei Rockets, che non si adagia su un facile spirito nostalgico, ma resta in piena risonanza con ciò che accade nell’immaginario contemporaneo. L’abbiamo sottolineato più volte: la Fantascienza è tornata a rivendicare visivamente e narrativamente la sua forza nel farsi carico di istanze sociali e rappresentative, che riverberano con la forza del genere tra gli anni ’70 e ’80. Basti pensare al lavoro di Villeneuve su Blade Runner e Dune, al continuo sviluppo degli universi di Star Wars e di Mad Max, o a innesti seriali Sci-Fi più o meno intensi che rendono più efficace il potenziale comunicativo di certe istanze, da Il problema dei tre corpi a A Murder at the End of the World. Ce lo dice anche Fabri Kiarelli, attuale frontman della band e autore dei nuovi testi: far dire certe cose agli alieni aiuta ad universalizzare il messaggio e a dargli una velatura narrativa più efficace. Così nel nuovo disco trovano spazio brani come Sitting On A Star, ideale seguito di In The Galaxy, entrambi momenti intensissimi dello spettacolo.
In quasi due ore e mezza di musica, lo spettacolo dei Rockets muove agilmente tra i grandi classici amatissimi dal pubblico – comprese un paio di suite strumentali sempre commoventi – e i brani dell’ultimo disco, mostrando un innesto consapevole tra tradizione e nuove direzioni che poggia sostanzialmente su due elementi musicali (l’inconfondibile andamento terzinato incalzante e il sound che miscela Rock classico e sintesi elettronica) e sull’identità visiva marchio di fabbrica della band: i laser, le visual, i costumi e i prop sul palco sono infatti elementi scenografici che si fanno immediatamente narrativi, rendendo lo show di The Final Frontier il correlativo musicale della rinascita della Space Opera su grande schermo.

Nello spettacolo non mancano momenti di consapevolezza dell’eredità – ormai assurta allo status di Cult Legacy – che la band porta con sé, sorretta dalla figura di Fabrice Quagliotti che veste i panni argentati dei Rockets dal 1977: Electric Delight, On The Road Again, One More Mission (personalmente il mio momento preferito del concerto) e, ovviamente, Galactica sono tra i titoli che più hanno saputo accendere l’entusiasmo di un Teatro Nazionale di Genova pieno e partecipe. Come non è mancato un tributo a Christian Le Bartz, storico frontman e volto iconico dei Rockets fino al 1983, scomparso a inizio febbraio di quest’anno; il ritorno della band alle sonorità originarie e a un tipo di spettacolo consapevole e solido diventa così un segno di riconoscenza per il lascito di Le Bartz, anche attraverso le movenze “aliene” che Fabri Kiarelli incorpora nella sua performance.
La band – che comprende anche Gianluca Martino alla chitarra, Eugenio Mori alla batteria e lo storico bassista (dal 1984) Rosaire Riccobono – riesce efficacemente a portare sul palco uno spettacolo che unisce il grado di strutturata professionalità contemporanea all’aggancio performativo e recitativo che i Rockets hanno sperimentato fin dal primo decennio. E nei momenti più luminosi l’illusione funziona: le porte dell’astronave si spalancano, il palco diventa un pianeta alieno e i cinque musicisti ci fanno sentire ancora una volta che musica si ascolta nei mondi lontani (eppure così familiari) che formano il nostro straordinariamente rinato immaginario fantascientifico.

Si spera qui che con l’ulteriore sviluppo dell’immaginario fantascientifico al cinema e in tv e con la riscoperta di grandi classici sempre e comunque imprescindibili, il lavoro dei Rockets possa nutrirsi e nutrire a sua volta l’eterna rincorsa ad uno Spazio narrativo inesplorato, così distante eppure così simile al nostro quotidiano sulla Terra, come lo è quella musica al contempo aliena e radicata nel Rock più genuino. Noi saremo pronti ancora una volta a salire sull’astronave e a ripartire verso l’infinito viaggio in the Galaxy.
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