
Si può raccontare la Storia con le immagini? Chronorama, un podcast di cultura visuale
A Venezia, dentro Palazzo Grassi – una delle sedi della Pinault Collection che conta più di 10000 opere da tutto il mondo, è in mostra il Novecento. “CHRONORAMA. Tesori fotografici del 20° secolo” espone quattrocento foto dell’Archivio Condè Nast e, quindi, quattrocento modi di raccontare visivamente «un secolo di guerre e miserie ma, al tempo stesso, di grande prosperità e bellezza». Ed è anche un podcast di cultura visuale.

Qui su Birdmen Magazine abbiamo ripetutamente affrontato il tema dei visual cultural studies a partire dal grande classico di L. Moholy-Nagy, Pittura fotografia film, per soffermarci sulle peculiarità della fotografia come immagine oggettificata e quindi in grado di essere stampata, appesa, commercializzata: insomma, capace di avere una consistenza mediale e una circolazione.
In questo articolo facciamo uno sforzo in più per cogliere le potenzialità delle immagini dentro e per la narrazione storica: che significa raccontare la Storia – o le microstorie dentro la grande storia, cioè «l’oceano delle storie» alla maniera di Carlo Ginzburg, con le immagini? Significa provare, come metodo, a risalire dalle parole alle immagini e infine alle persone, ai loro intenti, alle paure e alle aspirazioni intorcinate dentro gruppi di potere, eventi familiari e grandi fatti umani. Significa leggere le immagini come indizi di un atto comunicativo destinato a entrare, attraverso i pubblici di Vogue e Vanity Fair, dentro la sfera pubblica, anche con il linguaggio e lo sguardo impertinenti del pettegolezzo.

Il dibattito storiografico sulla supremazia di una certa storia fatta con la materia della grosse politik rispetto alla cosiddetta “storia delle idee” è, nell’opinione di molti, una sterile schermaglia tra settori disciplinari solo convenzionalmente separati. Ma non è con la burocrazia o la categorizzazione che si possono cogliere i livelli di un mondo complesso; perciò, progressivamente la storia culturale si è imposta anche come storia delle concezioni del potere, della sua organizzazione architettonica-spaziale, delle risorse intellettuali dei dispositivi di comando, del linguaggio del potere e della sua rappresentazione. Da sempre “fratelli sospettosi”, scrive Stefano Cavazza, la storia e le scienze sociali, pur avendo il comune proposito di comprendere il puzzle dell’agentività umana, hanno cominciato a dialogare dentro gli Annales dei tempi di Marc Bloch e Lucian Lebvre, aprendo la politologia – già corteggiata dalla sociologia di Charles Tilly e persino dalla psicanalisi assimilata da H. D. Lasswell, al metodo storico. Lo scopo della storia politica si è poi allargato: dal «linguistic turn», che ha integrato linguistica, filosofia e semiotica, passando per lo «spatial turn» e la geografia costruttivista, fino al pressante bisogno dell’ «iconic turn» di includere i cugini delle discipline mediali, e la fresca accoglienza delle caratteristiche visuali (il “pictorial side”) della comunicazione.
La politica prima, gli storici dopo, hanno imparato la lezione di William J. T. Mitchell sull’importanza del “first gaze” nel produrre un impatto di realtà, porgendo l’orecchio al potenziale epistemologico delle immagini. Da qui la salienza non solo dei rituali, ma anche della loro riproduzione: pensiamo al documentario propagandistico di Leni Riefenstahl sui giorni di Norimberga, alla tradizione dei manifesti politici dell’Italia repubblicana ben descritta da Edoardo Novelli, o ancora alle fotografie che riproducono un certo mito dell’uomo sovietico glabro e aitante, «scontatamente eterosessuale e prolifico» come scrive Gian Piero Piretto. Tutto questo ci insegna che lo sguardo non è neutrale, le immagini non sono neutrali, la loro collocazione nello spazio pubblico, e perciò i dispositivi mediatici su cui circolano – per esempio tutta una paraletteratura e una produzione editoriale che fa i prodromi dell’infotainment, meritano di essere indagati e studiati. I linguaggi visuali, ricorda Germano Maifreda nel suo Immagini contese. Storia politica delle figure dal Rinascimento alla cancel culture, non solo costituiscono una publica opinio, testimoniando un uso politico dell’immagine: dilatano persino l’immaginazione. E sappiamo che se si riesce a creare l’utopia in testa, si può anche incidere sul futuro proprio e degli altri, cioè fare politica.
E allora che cosa ci dicono gli scatti di Adolphe de Meyer, il “Debussy della fotografia”, sul languore del primo Novecento? Che significava politicamente ritrarre la dottoressa Mary Edwards Walker, oppure Jean Cocteau, in un momento storico di rivoluzione del rapporto tra uomo, donna e macchina? E ancora, come crocianamente intendere l’appello morale delle foto di Lionel Casan nel secondo dopoguerra, o la ricerca etno-antropologica dell’Irving Penn dei “Cuzco children”? E come il divismo, l’alcolismo, il «polisensualismo», la sublime decadenza pre-riflusso degli anni Sessanta e Settanta entrano dentro gli obiettivi di David Bailey e Helmut Newton?

A spiegarcelo è il podcast Chronorama, prodotto da ChoraMedia, scritto da Ivan Carozzi con la cura editoriale di Sara Poma.
Infatti, se la Mostra a Palazzo Grassi risponde, nel tradizionale schema interpretativo della narrazione di Paolo Jedlowski, alla funzione mnestica, cioè di conservazione della memoria collettiva, nella sua funzione cognitiva viene integrata e potenziata dal podcast. Le tre puntate, infatti, hanno il merito di riassumere il carattere affermativo dell’operazione culturale, cioè le sue potenzialità conoscitive e divulgative. Ma l’affermazione non è di tipo idealistico o marcusiano, non è trascendenza, è invece concretazione del momento artistico dentro il dato dell’esperienza: quella biografica, dei soggetti ritratti e degli artisti, con gli intrecci dello sfondo storico, e infine la vicenda dello spettatore che – con le parole di Carozzi e la voce gentile di Caterina Yuka Sforza, viene accompagnato per gli snodi dei decenni. Il podcast va considerato come una narrazione transmediale della mostra: questo significa che non c’è una trasposizione identica di un contenuto, piuttosto l’intermedialità (cioè la transizione su un altro medium, da quello fisico a quello digitale) ha carattere additivo, perché espande la fotografia stessa. Noi non la vediamo ma ne sentiamo la descrizione minuziosa e accurata e, se desideriamo, possiamo espandere ancora l’esperienza cercandola in rete e, infine, approdando in Laguna.
Chronorama è quindi la testimonianza del vecchio adagio di Ferrarotti che già nel 1974 scriveva: «non si tratta di sostituire il linguaggio puramente fotografico a quello discorsivo, l’immagine al pensiero: ma di renderli complementari». Le puntate non sono una duplicazione parziale della mostra, ma un esempio di estetica della ricezione attiva, cioè una lettura della mostra come atto interattivo e produttivo, che riempie le foto dei non-detti echiani, cioè di quei significati non esplicitamente manifestati al livello dell’espressione pura. Il podcast stesso diventa, e abilita, il «lettore modello» che decodifica, sostanzia e per certi versi può persino sostituire il consumo mediale delle immagini esposte. Chronorama è un esempio vincente del modo di Vitaliano Rovigatti di intendere l’informazione: come servizio e prodotto commerciale, ma anche come esercizio di potere, nel momento in cui dialogicamente riesce nell’intento di stimolare una partecipazione autentica e consapevole dell’ascoltatore e, ve lo auguro, passato presente e futuro visitatore.
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