
M – Il mostro di Düsseldorf: il suono e l’azione nel fuori campo
Il 1927 segna l’inizio dell’era del cinema sonoro con Il cantante di jazz (Alan Crosland), film statunitense, prodotto dalla Warner Bros. Quattro anni dopo, nel 1931, esce in Germania M – Il mostro di Düsseldorf, primo film sonoro di Fritz Lang, regista austriaco naturalizzato statunitense, che rende questa novità l’elemento chiave e imprescindibile dell’opera.
Scritto insieme alla moglie e sceneggiatrice Thea Von Harbou, proseguendo il sodalizio iniziato con Metropolis (1927), il soggetto del film si ispira ai fatti di cronaca nera della città di Düsseldorf, tormentata per anni dal mostro, un uomo che aveva ucciso diverse bambine del luogo: Lang racconta la caccia all’uomo all’interno di una comunità sconvolta dagli eventi e fratturata dalla forte divisione tra il corpo di polizia e gli abitanti dei bassifondi – la mafia, i mendicanti, le prostitute – il cui obiettivo comune, seppur inseguito in modi diversi, è trovare l’assassino.
Il conflitto di classe è un elemento caratteristico della Nuova Oggettività, corrente cinematografica tedesca, nata originariamente nell’ambito pittorico alla fine della prima guerra mondiale, che mette in primo piano la gente comune, i vicoli abitati dalla miseria e dalla disoccupazione, con un’attenzione alla psicologia dei personaggi.

Lo sguardo sulla comunità è evidente sin dall’inizio, quando i bambini giocano nel cortile del loro palazzo recitando la filastrocca dell’uomo nero, richiamati poi da una figura materna che, esausta per il peso della cesta dei panni e per il contenuto della tiritera, ordina loro di smettere di cantare. La macchina da presa rimane poi fissa sul balcone vuoto, mentre in sottofondo prosegue la filastrocca cantata dalla bambina.
Oltre ad anticipare il tema del film, l’incipit presenta due aspetti centrali e ricorrenti nella narrazione, quali l’uso del sonoro e del fuori campo con un forte valore drammatico, indagati da Lang nelle loro diverse declinazioni espressive: il suono, le azioni e la violenza avverranno spesso fuori dal quadro, restituendo, però, tutta la potenza, la vividezza e l’efferatezza della vicenda. Poco dopo, infatti, il grido disperato di un’altra madre riecheggia dal fuori campo, riversandosi negli spazi vuoti della tromba delle scale e della soffitta, rompendosi sul tavolo apparecchiato per la bambina, che però non vi mangerà più.
Il fuori campo interno e il sonoro sono poi gli espedienti con cui Lang segnala la presenza dell’assassino, quando fischietta il suo motivo, girato di schiena, rivolgendosi al venditore di palloncini o quando la sua ombra – una sorta di ombra junghiana, come lato oscuro di cui il mostro non è pienamente cosciente e padrone – sovrasta il manifesto su cui è scritto «Chi è l’assassino?».

Il film denuncia una forte presenza dell’istanza narrante nelle sue scelte formali ed estetiche, dall’ardito long take allo sguardo in macchina (quando i testimone gridano l’uno contro l’altro), fino ai raccordi sul movimento che creano situazioni grottesche, come l’alternanza tra le riunioni della polizia e della mafia, ironicamente unite dalla similarità dei gesti e dal fervore delle loro parole.
L’esplorazione del mezzo espressivo prosegue e raggiunge il suo apice con l’adozione del suono diegetico che, oltre a garantire una continuità narrativa tramite i raccordi sonori delle campane della città e degli orologi – oggetti quasi onnipresenti come simboli dell’ossessione per il tempo, propria dello stesso regista – diventa l’elemento narrativo cardine con cui viene svelata l’identità dell’assassino, celata dietro l’inquietante motivo fischiettato.

Ma l’assassino è davvero un mostro? Il personaggio di Hans Beckert è raccontato dalle parole della comunità e dagli articoli di giornale, senza il suo punto di vista, espresso solamente nel processo finale.
La sua reale identità è frammentata, e l’instabilità mentale che lo fa agire in maniera inconsapevole si manifesta nel riflesso degli specchi presenti sulla scena, rivelatori del suo doppio: è attraverso lo specchio di una vetrina che scruta una bambina verso cui ha una pulsione incontrollabile, e, ancora, nello stesso riflesso scorge il marchio sul proprio cappotto, una sorta di lettera scarlatta che lo etichetta come il mostro di Düsseldorf. Ma, di nuovo, lo è davvero?
Fritz Lang lascia aperto l’interrogativo, evidenziando le lacune, spaventosamente attuali, del sistema penale in tema di infermità mentale e svincolandosi da una visione manichea che condannerebbe l’assassino senza alcun processo.
La sentenza, allora, verrà nuovamente pronunciata in quello spazio non visibile allo spettatore, quel fuori campo potente ed evocativo, luogo di rivelazioni e scena della vera azione.
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