
Immagini e immaginari ai tempi della quarantena
Domenica 29 marzo 2020, un giorno come un altro se non fossimo nel mezzo di una pandemia. Oppure un giorno come un altro proprio perché siamo nel mezzo di una pandemia?
La diffusione in Italia (e in quasi tutto il mondo) del Coronavirus ha avuto importantissime conseguenze economiche, emotive e politiche sul nostro paese. Il confinamento casalingo della popolazione, la riduzione del dibattito politico a una sequela di dirette social e la trasformazione dei discorsi del premier Conte in materiale da meme non sono per nulla fatti banali, ma rappresentano un tentativo di dare forma all’immaginario legato al virus in accordo alle forme del sistema mediale contemporaneo. C’è però da chiedersi che ruolo possa avere il cinema in questo processo, considerando le conseguenze non tanto sul sistema di produzione dell’audiovisivo, quanto piuttosto le immagini iconiche che di questo periodo storico rimarranno nei film del prossimo futuro.
In un saggio capitale, Susan Sontag si è interrogata sul rapporto fra il cinema di fantascienza classico e l’immaginario della catastrofe, arrivando ad affermare una peculiare capacità del cinema di preconizzare in modo quasi inconscio i grandi eventi della storia. Non sarebbe però tanto il cinema ad anticipare alla realtà, quanto quest’ultima ad “ordinarsi” in un modo cinematografico, come se dalla memoria ricorrente e collettiva del cinema non ci si potesse sottrarre. Per fare un esempio più recente rispetto a quello di Sontag, rivedere oggi il finale di Strange Days, dove uno dei personaggi principali cade da un grattacielo, non può non riportare alla mente il caso dei jumpers delle Twin Towers. È quella che Chéroux ha chiamato diplopia: ogni immagine ne presuppone sempre un’altra.
Quali immagini per il Coronavirus, allora? In parte è ancora presto per dirlo, ma senza dubbio fa specie rivedere oggi un film come Contagion (2011), nel quale Soderbergh immaginava – con una precisione inquietante – il decorso di una pandemia globale estremamente virale. A scavare più a fondo nell’immaginario, però, un altro anticipatore di questa condizione di isolamento è stato forse Kurosawa Kiyoshi, che in Kairo (2001) ha rappresentato un mondo nel quale le strade sono deserte e le persone, chiuse nelle loro abitazioni, passano la vita dietro a uno schermo. C’è sicuramente molto del caso giapponese degli hikikomori in questo film e una certa preveggente sfiducia nel mito della Rete, eppure le porte sigillate di rosso che puntellano la città richiamano molto da vicino lo stato di questi giorni.
C’è però un elemento ulteriore: quella di Coronavirus è forse la prima pandemia continuamente raccontata dalle immagini. La condizione di isolamento e i tentativi di esorcizzarla per immagini si comunica soprattutto sulla sfera social ed è forse da qui che il cinema può ripartire. Lo dimostra in modo già programmatico Le film des istant (2020), film collettivo ideato da Frank Smith e liberamente accessibile su Vimeo (a questo indirizzo). Il regista ha raccolto una serie di brevi filmati di un minuto inviatigli da individui sparsi per il globo e ripresi domenica 28 marzo 2020, nell’ora compresa fra le 12 e le 13. Poche regole uguali per tutti: girare un piano-sequenza mostrando cosa si vede al di fuori della propria finestra.
Il film si compone così come un mosaico di istanti diversi, uguali nella loro impostazione ma diversi nella specificità di ciò che mostrano. Riconosciamo, nelle brevi sequenze che lo compongono, architetture diverse, che rendono conto della vastità dell’area coinvolta. Vediamo, raramente, passare degli individui e ci rendiamo immediatamente conto di come il volto della pandemia non sia nient’affatto straordinario. La mascherina ci rende in qualche modo tutti uguali, oggetti in cammino verso destinazioni identiche (il supermercato, la farmacia e poco altro). È un film, ovviamente, fatto di vuoti più che di pieni, di mancanze; la durata prolungata delle sequenze spinge a guardare in profondità, a cercare se non un senso almeno qualcosa che ci colpisca (un punctum?) ma questo non avviene quasi mai.
Ancora Sontag, nel 2003, scriveva a proposito della mostra Here is New York, dedicata alle foto (amatoriali e non) scattate l’Undici settembre. L’autrice si sofferma in particolare sulla capacità delle immagini di farsi mediatrici di un lutto, superfici di elaborazione del trauma; la dimensione collettiva dell’impresa permette di ricucire gli strappi di una nazione ferita nel profondo e di cominciare a costruire un racconto visivo dell’evento, che renda conto dei suoi rimossi e delle sue implicazioni etiche e politiche. Avremo bisogno, quando la pandemia avrà superato la sua acme, di elaborare un medesimo insieme di coordinate per orientarci nel ricordo, per dare forma ed espressione visiva al trauma che ci ha attraversato.
Le film des istants è in questo senso un primo, importante, tentativo di esplorare le condizioni di rappresentabilità della nostra condizione odierna, che non deve essere edulcorata o mitizzata, ma studiata per quello che è, indagandone anche i bordi e le esclusioni fondative. Su questo c’è ancora del lavoro da fare, considerando che la narrazione mainstream del Coronavirus (cristallizata nell’hashtag #iostoacasa) si preoccupa forse non a sufficienza di chi non ha una casa dove stare e di tutti coloro che per un motivo o per l’altro abitano la strada (dai riders alle sex workers), diventata quasi una terra di nessuno.
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