
“C’era una volta in America” di Ilaria Feole
Giovedì 6 giugno Ilaria Feole ha presentato alla libreria “Il Delfino” il suo libro C’era una volta in America, edito da Gremese. A dialogare con lei c’era il regista e docente Filippo Ticozzi, cui si è aggiunto a sorpresa anche Giulio Sangiorgio, direttore di Film Tv. Ilaria Feole (1983) è originaria di Milano. Scrive di cinema e serialità per Film Tv e per la rivista online Gli Spietati. Ha pubblicato Wes Anderson – Genitori, figli e altri animali (2014) e Michele Soavi – Cinema e Televisione (2018), entrambi con Bietti Heteropia.
A novant’anni dalla sua nascita e a trenta dalla sua scomparsa, il 2019 è un anno perfetto per celebrare il genio di Sergio Leone. Ilaria Feole lo omaggia con C’era una volta in America, un volume che ci accompagna nella visione del film di Leone del 1984, l’ultima e immensa fatica e testamento artistico del regista italiano. Diciamo “accompagnandoci” perché l’autrice sceglie di sviscerare il film scena per scena, raccontandoci cosa vediamo e, criticamente, soprattutto ciò che va oltre la naturale “visione”. Per l’autrice è operazione più naturale possibile, vista la devozione con cui – ammette – continua a rivedere il film, e per questo desidera spingere il lettore alla partecipazione, a fare esperienza cinefila del “rituale”. Non a caso, il volume comprende un’introduzione dove l’autrice racconta la storia del suo legame con questo film, sottolineando ancora di più i sentimenti che guidano la scrittura.
Il dialogo con Ticozzi e Sangiorgio si è concentrato in particolare sui contenuti del prologo, il quale occupa ben quaranta pagine delle circa centocinquanta totali. Un numero che racconta la volontà dell’autrice di introdurre preliminarmente il film con uno sguardo ampio, d’insieme, per poi stringere l’obiettivo sul racconto dettagliato dell’opera.
L’ultima pellicola di Leone va innanzitutto contestualizzata nel percorso del regista e nella storia del Cinema. Il film è parte della così detta Trilogia del Tempo, insieme a C’era una volta il West (1968) e Giù la testa (1971), meno nota della Trilogia del dollaro, completata a ben tredici anni di distanza dal secondo capitolo. Dietro a questa attesa, come spiega Feole, si cela una gestazione ventennale causata dalla sfiducia dei produttori, da una sceneggiatura sempre inadeguata rispetto ai desideri di Leone e da altri incidenti di percorso. C’era una volta in America arriva quindi nelle sale a metà degli Anni Ottanta, assumendosi il peso di essere il film di una vita intera.
Di fatto, a quest’opera Sergio Leone non consegna solo la sua vita in termini di produzione, ma anche in termini di contenuto. Nel 1953 l’uscita de I Vitelloni (Fellini) rappresentò per il nostro un boccone amaro: sognava di trasporre la sua infanzia romana nel quartiere di Trastevere, ma il collega Federico lo anticipò. Quando però Leone si trovò fra le mani il romanzo di Grey The Hoods (1952), capì che la sua infanzia poteva indossare i panni di una gang ebrea newyorkese, trasmettendo comunque l’immensa nostalgia delle amicizie e dei giochi infantili.
Il lavoro di contestualizzazione continua indagando il rapporto fra la pellicola e la storia del Cinema. Due affermazioni in particolare possono fungere da esergo dell’analisi: Baudrillard, che fece di Leone «il primo regista postmoderno», e Sergio Leone stesso, il quale affermò che il film si sarebbe potuto chiamare «C’era una volta un certo tipo di cinema». Leone, come segnala Ilaria Feole sia nel libro sia alla presentazione, era un autore quanto mai loquace quando si parlava dei suoi film, a differenza di altri cineasti. Nelle sue parole si può cogliere una grande consapevolezza nel rapportarsi alla storia del cinema e dei suoi generi, un atteggiamento che raggiunge il suo apice in C’era una volta in America: l’inganno che ruba la vita di Noodles (Robert De Niro) racconta anche l’illusione del sogno americano che il cinema ci ha raccontato per anni. Un’illusione che Sergio ha vissuto in prima persona, in quanto uomo di cinema nato nel cinema e che racconta metaforicamente allo spettatore – i genitori di Leone erano infatti regista e attrice.
La volontà di Leone di smascherare la finzione cinematografica è esplicita per tutto il film. Feole la segnala in più punti, a cominciare dal celebre telefono che squilla continuativamente da una scena all’altra, la colonna sonora che si confonde fra diegesi ed extradiegesi e le continue “cornici” che intrappolano il quadro e consegnano i personaggi alla dimensione del voyerismo. Il libro è ricco di immagini atte a dare prova di queste e altre tesi, ma è soprattutto sullo sguardo dei protagonisti che si concentrano i frame esaminati.
Infine, alcune pagine curiose sono dedicate ai commenti della critica, dall’uscita fino ad anni recenti. I brevi estratti raccontano la vita travagliata dell’opera, iniziando dalla perplessità di Vincent Canby (1984) riguardo il pessimo montaggio proiettato negli Stati Uniti, passando per la stroncatura di Paolo Mereghetti (1993), per poi elencare una serie di analisi che hanno riabilitato il film fino a promuoverlo come capolavoro assoluto di Leone. Anche Ilaria Feole, quindi, pone il suo lavoro come il risultato di diversi anni di critica sedimentata. Ciò non sminuisce assolutamente il valore del libro, ma lo riafferma: qualsiasi pagina spesa nei confronti di un classico come C’era una volta in America, specie se consapevole della relativa eredità critica, non sarà mai scontata.
Per una panoramica sul cinema di Leone, leggi anche Sergio Leone: sette film per cambiare la storia del Cinema.
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