Galassia Lynch, dove non esistono mappe
In occasione del compleanno di David Lynch proponiamo un viaggio galattico nello spazio dei sogni, prendendo l’ultima stagione di Twin Peaks come spunto per capire il percorso artistico di uno dei registi più innovativi e influenti del cinema contemporaneo. (L’illustrazione scelta come copertina di questo approfondimento è una cortese concessione di Beppe Conti).
Per raggiungere una maggiore comprensione dell’ultima stagione di Twin Peaks, credo sia consigliabile adottare una visione d’insieme, guadagnare, cioè, la posizione elevata propria di un onironauta che osservi una galassia di sogni. L’onironautica è l’arte di navigare nei sogni, di arrivare a controllarli e vivere il massimo potenziale della nostra mente: chi, se non David Lynch, può dirsi un vero onironauta?
Con il nuovo Twin Peaks, il regista di Missoula ha dimostrato come sia potente una visione galattica dell’arte, laddove l’arte diventa di tutte le cose una, unendo, nel cinema, le infinite parti di una mente che si è dichiaratamente dedicata, corpo e spirito, a quella che Lynch definisce The Art Life, una sorta di filosofia, di modo di vivere completamente votato alla creazione, all’arte. Parlando di questo concetto, appunto, Lynch ha dichiarato: «avevo questa idea in cui bevi caffè, fumi sigarette e dipingi, ed è tutto; forse le ragazze hanno una parte in tutto questo, ma di base è l’incredibile felicità di lavorare e vivere quella vita». Ma se, dunque, l’artista si vede anzitutto pittore, è possibile considerare la sua ultima opera il frutto di una normale attività creativa volta alla produzione di una serie televisiva? La risposta è ovviamente negativa, perché Twin Peaks – Il ritorno è l’attuale centro di una galassia fatta di sogni, incubi, tele, pittura, disegni, pellicola e musica: è il punto più alto raggiunto da Lynch nella sua ricerca della vita artisticamente completa o, meglio, completamente artistica.
David Lynch, artista polidimensionale – perché definirlo “poliedrico” sarebbe riduttivo -, è riuscito a costruire una struttura seriale basata sugli affioramenti, come se avesse attraversato la galassia di cui parlavo e ne avesse colto, più o meno inconsciamente, le parti migliori. Nella serie, infatti, si sviluppa ulteriormente quella tendenza dell’ultimo cinema di Lynch a destrutturare con tratto surrealista la narrazione, arrivando a congiungere la vena artistica con quella narrativa, in un’esperienza che esce definitivamente dai canoni dello scibile, per rientrare in quelli dell’onirico, fatti di paure primigenie e inspiegabili.
In quest’ottica, quella che è stata vista come eccessiva lentezza di certe scene, non è altro che lo sviluppo di un’idea che mette al centro non più lo spettatore, ma la storia, perché non è infatti compito della storia adattarsi ai tempi dello spettatore, non sarebbe un’esperienza vera quella di una trama che segua i tempi scanditi dalle serie contemporanee, frenetiche, quasi matematiche: la verità è nel sogno, è nell’osservazione quasi maniacale di un gesto, è la visione al microscopio. Richiede tempo.
In questo testamento televisivo, molti sono stati i momenti di chiara autoreferenzialità, un po’ per lo spaesamento generale che ne permea le atmosfere e che riporta al folle INLAND EMPIRE (non a caso, definito il testamento cinematografico di Lynch) e, naturalmente, a Mulholland Drive e Lost Highway – pellicole in cui i nomi non corrispondono più alle identità, i significanti si slegano dai significati e la realtà è solo uno sbiadito ricordo -, un po’ per un gusto visuale che supera di gran lunga la televisione anni ’90 e porta il cinema direttamente nelle nostre case, abbattendone ogni muro.
È infatti incredibile che nel 2017, l’epoca delle serie TV scritte col cronometro e disegnate in CGI, un’emittente – la coraggiosa Showtime – abbia permesso l’espressione completa di un’idea così estrema, fatta di ritmi altalenanti e riprese che talvolta hanno chiamato in causa effetti speciali che sarebbero parsi pacchiani in qualsiasi altra opera, ma non in questa. Tutto ciò è possibile grazie alla mente che sta dietro a tutto l’edificio, la stessa che impiegò cinque anni a finire Eraserhead e che dimostrò la forza delle idee, dei concetti, più che della macchina e dei soldi.
È proprio la tendenza a preferire le idee, e quindi a creare in prima persona il profilmico, a rendere l’ultima opera di Lynch più vicina alla concretezza dei sogni, dal momento che, di fatto, i nostri sogni sono reali perché descrivono una forma diversa della realtà, sono fatti di materia, non sono frutto di manipolazione digitale e, per questo, gli effetti speciali preferiti da Lynch sono quelli apparentemente fatti in casa e, per questo, più veri, umanizzati; sono i giochi da cinema delle origini, con le sovrimpressioni, le dissolvenze, i lampi di luce e le cubature di buio che nascondono esseri dalle fattezze magmatiche, dai volti sfondati e deformati, proprio come avviene nelle tele del pittore Lynch, ultimo dei surrealisti, erede di Magritte e, soprattutto, di Francis Bacon.
Macchine a vapore, personaggi minacciosi, suoni indecifrabili, sono elementi che affiorano dalle tele e finiscono dritti nel cinema, scavalcando probabilmente una sceneggiatura che ha il solo compito di indirizzarci, sì, nell’opera, ma che non deve svelare cosa stia dietro al sogno, perché, arrivati di fronte all’inconscio, solo noi possiamo camminare, soli, nel buio di una foresta, e farci un’idea sui misteri di Twin Peaks, cittadina così diversa da una volta e così insolitamente legata al mondo esterno.
A mio avviso, infatti, il passaggio dai 4:3 della serie anni ’90 ai 16:9 di oggi ha allargato anche i confini della comunità di boscaioli, unendoli, inaspettatamente, a quelli di New York, Las Vegas e addirittura Buenos Aires: che senso ha tutto ciò? È solo il segno di un mondo che cambia o ha a che fare con la galassia in cui stiamo navigando? Propendo per la seconda ipotesi, immaginando Lynch fluttuare su tutto quel mondo che ha creato, storia dopo storia, quadro dopo quadro, e unirne le parti, legarle in un sogno, superando le logiche della narrazione e raggiungendo il concetto Baconiano della “volontà di perdere la propria volontà”, ovvero di rinunciare ai meccanismi e lasciarsi prendere dalle immagini, cadere letteralmente in un quadro, in un’immagine.
Per questo le scene lente, incomprensibili, perché Lynch ci invita in una personale pinacoteca onirica in cui niente e nessuno è ciò che rappresenta, in cui i nomi si scambiano, le persone parlano al contrario, i suoni si manifestano senza una fonte, la violenza scatta con impeto improvviso e talvolta comico: siamo ospiti in un mondo che non ci appartiene, che non ci darà risposte definitive e che, anzi, pone una miriade di domande. I personaggi stessi vagano senza meta, guidano per ore e ore, di giorno e di notte, perché hanno perso la strada, non sanno più in che anno vivano, se sia futuro o passato.
Nell’ultimo Twin Peaks, dunque, è chiara la nascita di una mitologia, di un universo lynchano che assottiglia le distanze tra le singole storie, andando a recuperare reminiscenze dei primi cortometraggi, degli ultimi film, delle tele surrealiste e addirittura degli album musicali di David Lynch, ormai sempre più interprete dell’artista multidisciplinare, completo, vitruviano, in un certo senso. E se la fonte di questa esplosione mentale sia frutto della meditazione trascendentale o di una forma di onironautica votata all’arte, non è dato di sapere, ma quello che resta è sempre e solo una domanda: «Who is the dreamer?».
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Per seguire Beppe Conti, autore della copertina: bit.ly/2RSSEBs
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