Bandersnatch, la scelta di esperire
Bandersnatch è il nuovo episodio one-shot di Black mirror, la creatura di Charlie Brooker approdata su Netflix dall’ultima stagione – dividendo molto il fandom tra coloro che ne apprezzano stile e contenuti e chi, invece, l’ha ritenuta troppo “debole” rispetto ai primi episodi.
Bandersnatch racconta la storia di un programmatore di videogame che negli anni ottanta cerca di programmare un gioco sulla base del libro-game di un fantomatico scrittore. L’episodio si basa in parte sulla storia di un omonimo videogame della Imagine Software, molto pubblicizzato negli anni ottanta e poi scomparso a causa del fallimento dell’azienda produttrice.
Cuspide mediale
Di Bandersnatch si è detto già tanto, per questo non voglio annoiarvi con Easter-egg e dettagli tecnici, poco utili alla comprensione dell’episodio. La mia idea iniziale era quella di eseguire una recensione a bivi, in cui poter scegliere se l’episodio vi era piaciuto oppure vi aveva fatto schifo. Il serial si regge bene in entrambi i casi e questo permetteva la doppia recensione.
Come mai? Perché Bandersnatch è una cuspide mediale, è uno di quei prodotti come Star Wars VIII, Maniac o Annihilation (questi ultimi due anch’essi legati a Netflix, guarda caso) creati per risultare ambigui, per sfuggire alle definizioni, per far parlare di sé. Un’opera in parte superficiale, fatta per i fan e banale, ma al contempo profonda, avanzata e innovativa. È la Metafora di Black mirror con la M maiuscola.
Fatto per far parlare di sé
Non importa se vi ergerete a paladini dell’episodio, tessendone le lodi, oppure a critici a spada tratta dei contenuti: Bandersnatch è fatto per rimanere, per perdurare, per farci parlare. Il suo obiettivo non è convincere, quanto scatenare il dialogo sui suoi contenuti.
Quali sono questi contenuti? L’episodio segna un vero ritorno alle tematiche originali di Black mirror, specialmente quella per cui la tecnologia non è a prescindere malvagia, ma è piuttosto l’uso che l’Uomo ne fa a renderla tale. Un elemento adombrato nell’ultima stagione, più vicina al timore e terrore che le persone hanno per la tecnologia a prescindere dall’elemento umano. Bandersnatch invece la rimette al centro, sia come contenuto che come mezzo. La tecnologia diventa il territorio per sperimentare e per esperire, ridando autorità e responsabilità della scelta agli spettatori. A prescindere che le scelte siano davvero libere, riscopriamo con l’episodio interattivo che sta proprio a noi, come essere umani, impostare il rapporto che abbiamo con la tecnologia. Per quanto possa essere ergonomica, la scelta di utilizzo di una caffettiera risiede nell’intelletto umano.
Un episodio che ci integra
Diventando nostra la possibilità di orientare le scelte del protagonista, pur rimanendo in mano agli sceneggiatori la storia da raccontare, siamo diventati di fatto parte integrante di Black mirror, personaggi dello specchio nero al pari dei cittadini inglesi di The Nation Anthem e ai votanti di The Waldo Moment, chiedendoci anche noi se siamo ingannati e manipolati tanto quanto il protagonista.
Non è dunque il fatto che il protagonista possa rivoltarcisi contro ad essere importante, né la consapevolezza che le scelte intraprese abbiano davvero una ricaduta sulla storia oppure no. Il vero punto focale dell’episodio sta nell’ambiguità dei feedback portati allo spettatore, talvolta troppo superficiali per il tipo di scelta che si deve compiere, altre volte banali e palesi.
Questa ambiguità è il vero cuore di Bandersnatch, il suo essere ambiguo per natura, il suo sfuggire ad ogni definizione di formato e di genere. Il serial ci sfida a compiere un nostro percorso a bivi sul giudizio che si dà allo stesso: nella nostra mente, ripercorrere le svolte vissute ci obbliga a compiere delle scelte critiche nel capire cosa sia in realtà ciò che abbiamo visto – e da qui scaturisce la discussione.
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